“Affitto? E chi lo paga l’affitto, è mio l’appartamento, ogni santo mese ho la rata del mutuo, è come una martellata…come dite voi? Sui “maroni” giusto? Ogni dieci del mese.”
“Beh, però, almeno è casa tua, un affare, no?”
“Vero? L’ho pensato pure io quando l’ho comprata.”
“Ma me lo fai vedere quest’appartamento o rimaniamo fuori a parlare?”
L’interno era decisamente conciato meglio dell’esterno. Dopo aver salito le scale sino al primo piano, ad accoglierci fuori dall’uscio c’era un banale tappetino con la scritta “Benvenuti”. Mi bastò quel semplice zerbino per riscaldarmi il cuore e farmi sentire in un luogo famigliare. Non appena avevo varcato quella porta, era stato come entrare in una finestra astro temporale. La sciattaggine e il degrado rimasero fuori. Le pareti erano in condizioni perfette e incipriate di colori vivi e solari. All’ingresso vi era un piccolo disimpiego seguito da un’ampia tavola in mogano ben intagliata, che di sicuro avrebbe lasciato senza parole chiunque l’avesse osservata per la prima volta, come il sottoscritto. Questa era contornata da otto sedie, degne di accessoriare tale bellezza; come una parure di gioielli decora il collo di una bella donna. Sulla destra e sulla sinistra vi erano due porte a vetri. La prima custodiva la toilette, mentre una piccola e ordinata cucina si scopriva aprendo la seconda. Continuando ad avanzare e lasciando alle spalle la seconda porta, un’apertura senza infisso lasciava intravvedere a qualsiasi invitato una camera degli ospiti, anche se a dire il vero sembrava un piccolo disimpegno per rimanere un po’ appartati. Continuando con la perlustrazione visiva, mentre mi accingevo ad accomodarmi in un piccolo e morbido divano, almeno all’apparenza, un’altra porta annunciava l’ingresso a due camere da letto, le quali, ipotizzavo dalla luce dello specchio che ne rifletteva, condividessero il bagno.
Tralasciando questi vani, che dal mio punto di vista non erano il punto forte della casa, lasciandomi la tavola alla mia destra, potevo accedere a un piccolo disimpiego e a un grande salone. Queste stanze non erano separate tra loro, sebbene di primo acchito si avvertiva il distacco tra gli ambienti. Tale sensazione era creata dal diverso colore delle pareti e da una leggera gessatura finemente decorata, dando all’ambiente un’aurea regale.
Nel primo ambiente, quello più piccolo, erano posizionati due divani a tre posti, l’uno di fronte all’altro, con al centro un piccolo tavolino. Quest’ultimo aveva il ripiano in vetro dal quale si poteva notare una riproduzione del corano a dimensioni reali. Era aperto a metà e completamente rifatto in argento. Era stupendo e incastonato in quel mobile nero risaltava in tutta la sua magnificenza. L’altra stanza, due volte più grande, anch’essa contornata da dei divani piatti. A dire il vero non sapevo come definirli, perché erano composti solamente dalla parte sottostante e al posto dei poggia schiena c’erano dei giganteschi e morbidosi cuscini. Anche qui in mezzo c’era un piccolo tavolino, ma a differenza dell’altra stanza qui c’erano dei quadri. Erano tutti quadri religiosi. Uno riportava delle scritte del corano. Uno rappresentava la copertina del testo sacro. Un altro, che non riuscivo a comprendere, era l’insieme di molte lettere sino a rappresentare quasi una fiamma ardente, ma forse era solo una mia misera e inesperta interpretazione.
Sta di fatto che ognuno di questi quadri aveva dei filamenti in oro, e a guardarli così da vicino, sembravano proprio di valore.
Non appena la porta si chiuse dietro le nostre spalle, una voce provenne dalla stanza accanto. Si sentiva che la pronuncia non era molto fluida, quanto meno era in italiano, e ne potevo capire il contenuto.
“Ciao fratello, cosa fai già a casa? Spero tu abbia portato da mangiare!”
“Ehi Ahmed, vieni di qua che ti presento un amico.”
Khan si accorse che lo stavo guardando incuriosito.
“Che c’è?”
“Perché parlate in italiano? E’ strano sentire due stranieri come voi non parlare nella vostra lingua.”
“Eh si, devi sapere che mi sono rifiutato di rispondere a mio fratello se continuava a parlarmi in marocchino, visto che la sua conoscenza dell’italiano è al quanto grossolana, per non dire schifosa, ma questo tienilo per te, perché è alquanto permaloso.”
Tempo nemmeno di finire la frase, ed eccolo sbucare da dietro la porta del privè, visto che la porta non era chiusa da nessun infisso e a celarne il contenuto vi era una leggera tendina in bambù blu stilizzata con ornamenti che ricordavano le lettere arabe in oro.
“Ma chi cazzo è questo? Ti sei messo a raccattare anche i barboni per strada?”
Disse con schiettezza.
“Idiota, stai attento a come parli, è un poliziotto.”
“Cosa??? Tu porti uno sbirro a casa? Sei scemo? Già lavori con loro ed è uno schifo, e ora che fai? Li porti a casa? Non credo a occhi e orecchie.”
Ahmed, cambiò completamente espressione, come se la mia presenza gli desse qualche noia, più che altro, il mio ex lavoro.
“Guarda non ti devi preoccupare, non sono più uno sbirro, m’hanno cacciato, quindi se vuoi fumarti dell’hashish o farti una pista, libero di fare c’ho che vuoi, quella schifezza non mi riguarda più. Tuo fratello mi ha portato qui perché non sapevo dove andare, ma se ti creo problemi basta che me lo dici, come sono entrato, esco, basta che non mi rompi le palle.”
“Ahmed, prima che tu dica qualcosa, ti ricordo che pago io questa casa, quindi lui rimane, e se non ti sta bene, peggio per te, ti ci abituerai.”
“Sbirro…scusa, come ti chiami?”
“Chiamami Fra.”
“Fra, vuoi caffè? Ti vedo sbattuto.”
“Ahmed, la vuoi finire, non è mica tuo fratello, e comunque, nemmeno a me devi parlare così, vai a mettere su questo caffè e porta anche qualcosa da mangiare.”
“Ah e visto che ci sei, Archimede, portami anche un po’ d’alcool.”
“E chi è Archimede? Se è complimento ok, ma tu essere sbirro, quindi non credo che è complimento e questo non è bar… dovresti sapere che noi arabi non beviamo alcolici.”
“Certo che lo so, ma tu non hai la faccia proprio della persona che segue alla perfezione il corano, quindi portami un po’ d’alcool e non rompere, e se ti do fastidio, come ha detto tuo fratello, quella è la porta. Dai su Archimede muovi il culetto.”
“Come mi hai chiamato sbirro?”
Digrignando i denti e con gli occhi iniettati di sangue dalla rabbia avanzò con passo rapido e deciso, come un leone con la gazzella, inconsapevole però che era caduto nella mia trappola. Il fratello rimase ad assistere all’evolversi della scena esterrefatto e senza proferir parola. Nell’arco di quel piccolo battibecco mi ero seduto comodamente sul divano, e ora lo guardavo avvicinarsi a me, quasi correndo. Attesi che si scagliasse contro di me e poco prima che riuscisse a prendermi per il bavero, reclinai la schiena sino ad appoggiarmi allo schienale e alzando le gambe gli sferrai un calcio all’intestino.
“Adesso posso avere un po’ d’alcool…per cortesia?”
Con la spinta impressagli lo feci balzare indietro di qualche metro, facendolo andare a sbattere con la schiena al muro, per poi scivolare a terra. Non riusciva nemmeno a parlare. Una volta rialzato in piedi, senza proferir sillaba, si diresse in cucina, dove tornò con il caffè, del vino e un po’ di noccioline.
“Era ora che qualcuno gli facesse abbassare un po’ le orecchie. Grazie, io non sono mai riuscito ad alzare le mani su mio fratello, e forse anche per questo che è un po’ indisciplinato.”
“Guarda per me è solamente un piacere. Le persone che cercano di fare le prepotenti mi fanno perdere il controllo. Più che altro scusami se ho reagito d’istinto così con tuo fratello senza chiederti nulla, anche perché mi dai ospitalità ed io cosa faccio in cambio? Ti picchio il fratello la prima volta che lo conosco. Direi che non sono il top della cordialità, non trovi???…Ehhehehehehe.”
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