Laura Merlin - Morrigan

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‹‹Andiamocene, presto. Lasciamola qui a crepare››, disse la bionda. ‹‹E tu, vieni con noi, non ci denuncerai anche per questo››.

Tutte e tre le ragazze se ne andarono di corsa, lasciandomi sola in un letto di foglie.

Mi accorsi solo in quel momento che non erano lacrime a bagnarmi il volto, bensì gocce di pioggia.

Sembrava che il cielo si fosse messo a piangere per me.

Sapevo che in quel posto nessuno mi avrebbe trovata in tempo per salvarmi. Ormai ero destinata a morire senza nemmeno aver avuto il tempo di salutare i miei genitori.

Mia madre, la mia dolce e cara mamma, sempre pronta a starmi accanto. Avrei voluto ringraziarla per tutto quello che aveva sempre fatto per me.

Mio padre, il mio adorato e forte papà dal quale avevo preso i capelli ribelli e neri. Avrei dovuto dargli ascolto più spesso.

E Ade, il mio fedele amico a quattro zampe. Che avrebbe fatto ora senza di me? Eravamo sempre insieme, inseparabili, e ora non avrei più potuto stargli accanto.

Fu proprio su questo pensiero che una lacrima scese lungo la guancia, questa volta davvero, mischiandosi con la pioggia.

Un brivido freddo mi attraversò il corpo e tutto sembrò muoversi.

Il mondo cominciò a vorticarmi attorno e qualcosa mi attirò verso l’alto, fuori dal corpo. Non riuscivo a distinguere nulla. Stavo viaggiando a una velocità tale che vedevo solo sagome indistinte o lampi di luce. L’unica cosa che riuscivo a percepire in quel singolare viaggio erano delle voci. Dei lamenti per essere precisi. Dei lugubri e tetri lamenti. Addirittura, sembrava che mani invisibili si allungassero per fermare la mia folle corsa. Mi trafiggevano il corpo ma non potevo sanguinare e brandelli di carne sembravano togliersi dal corpo ogni volta che una di quelle mani mi sfiorava.

Dopo quelli che sembrarono minuti infiniti mi ritrovai a fluttuare.

Non ero in una stanza.

Non ero fuori.

Non ero nemmeno in cielo.

Galleggiavo in una sorta di dimensione celeste, tutto attorno a me brillava di una luce azzurrina e ipnotica.

Avrei potuto rimanere là per sempre. Provavo un senso di pace così immenso che avrei desiderato perdermi in quel posto.

Le mie preghiere furono accolte.

Un bagliore bianco e accecante mi fece perdere i sensi e tutto diventò buio e silenzioso.

3

L’ARRIVO A NAOSTUR

‹‹Non credi che dovresti svegliarla, ora?››.

‹‹È così dolce vederla dormire››.

‹‹Sei impazzita? Non dirai sul serio, Sara››.

Sentivo la voce di due ragazze.

Chi erano?

Che volevano?

Desideravo tanto che se ne andassero, che mi lasciassero dormire.

Per sempre!

Non volevo svegliarmi, stavo bene dov’ero.

‹‹Smettetela››, ordinò una voce dolce e allo stesso tempo autoritaria. Era un ragazzo, e dal timbro vocale doveva avere la mia età o poco più. Non ci pensai troppo, il mio cervello reclamava a ogni tentativo di farlo funzionare.

‹‹Finalmente sei arrivato››, disse la prima ragazza, quella che sembrava più decisa e inflessibile.

‹‹Andatevene, lasciatemi solo con la nuova arrivata››.

‹‹Certo, capo››, risposero in coro le ragazze ridacchiando.

Sentii dei passi che si allontanavano, qualche parola bisbigliata e la porta chiudersi con un cigolio fastidioso.

Rimasi finalmente sola.

O forse mi sbagliavo?

Qualcosa di caldo si avvicinò al mio volto. Profumava come l’aria di montagna.

A un certo punto questa cosa si avvicinò alle mie labbra e vi si appoggiò.

Fu allora che capii che quello era un bacio.

Il bacio più intenso che avessi mai ricevuto. Le mie labbra si mossero con una reazione involontaria. Si aprivano e si chiudevano seguendo le sue labbra. Era come ossigeno. Cercavo avidamente quella bocca, come se da lì potessi attingere forza.

Come se potessi vivere di nuovo.

Una leggera scossa elettrica percorse ogni centimetro del mio corpo rimettendo in moto gli ingranaggi.

Le labbra misteriose si staccarono dalle mie. Spalancai gli occhi e mi misi a sedere di scatto boccheggiando.

‹‹E stai un po’ attenta!››.

‹‹S-scusa›› balbettai. Mi ero alzata talmente di fretta che quasi andai a sbattere addosso al suo viso. Si trovava a pochi centimetri da me ed era il ragazzo più bello che avessi mai visto. I suoi occhi erano neri come la notte, i capelli ricci, scompigliati e neri, sembravano così soffici che avrei voluto provare ad accarezzarli.

Mi resi conto di essere rimasta a fissarlo a bocca aperta e cercai di mascherare l’imbarazzo meglio che potevo.

‹‹Ci tengo a chiarire le cose subito››, disse con serietà , ‹‹Sei morta! Ora ti trovi nell’Altro Mondo. Ti ho risvegliata con un bacio e…››.

‹‹Frena frena frena. Un’informazione alla volta››. Lo bloccai alzando una mano. ‹‹Partiamo dall’inizio. Primo, non credo proprio di essere morta dato che ci stiamo guardando negli occhi e sto parlando. Secondo, chi sei tu? E cos’è questa storia del… beh, del bacio?››.

Notò che le guance mi si erano infiammate e fece un sorriso che mi fece accapponare la pelle. Sembrava un terribile cacciatore che godeva nel vedere la sua preda in gabbia, senza alcuna via di scampo.

‹‹Sì, giusto, hai ragione››. Si schiarì la voce. ‹‹Mi chiamo Gabriel e sono l’angelo della morte. Per quanto possa sembrarti assurdo, ti ho baciata perché sembra che io abbia la sfortuna di far morire la gente e, in casi rari, di farla rivivere››.

‹‹Angelo della morte? Questa sì che è bella››. Scoppiai a ridere. ‹‹Sto ancora sognando, devo assolutamente svegliarmi››.

Cominciai a pizzicarmi il braccio ma l’effetto che ottenni non fu quello sperato. Non mi svegliai nel mio letto come quando avevo fatto quel bruttissimo incubo la sera prima.

Quindi quello che mi aveva appena detto era vero?

Quello era l’aldilà ?

Se ero morta, perché il pizzicotto mi aveva fatto male?

Mi guardai attorno, spaesata. La stanza mansardata era tutta rivestita di legno. Una finestrella era ricoperta da delle tende azzurre, in tinta con le lenzuola e con i tappeti.

Inarcai un sopracciglio e pensai che in fatto di arredamento gli mancava decisamente molta fantasia.

Accanto al letto, alla mia sinistra, c’era un enorme specchio e fu in quel momento che vidi il mio riflesso. Il viso pallido, i capelli più lunghi e più neri. Indossavo ancora la canotta bianca con la farfalla rosa e i pantaloncini corti neri.

E le mie All Star.

‹‹Mi dispiace, lo so che è dura da accettare, ma sei morta davvero››, e con un gesto automatico, di circostanza, mi posò una mano sul braccio come se volesse consolarmi. Sentii un brivido lungo la schiena, un misto di paura, orrore e attrazione.

Era come se potessi avere delle informazioni in forma di sensazioni sulla sua vita. Avrei potuto giurare che sentì anche lui quella specie di scossa perché mi guardò sgranando per una frazione di secondo gli occhi neri, quasi irritati, e ritrasse subito la mano.

‹‹Okay, senti››, disse lui ritornando al discorso di prima, ‹‹Ti trovi in un posto chiamato Naostur. Dovrai comportarti in una certa maniera d’ora in avanti. Questo non è il mondo in cui sei abituata a vivere, anche se ci assomiglia molto››.

‹‹Sono in paradiso?››.

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