«È già l’ora del sonnellino, Alice?», la provocò Edward. Lei tornò in sé. «Scusate. Mi sa che stavo sognando a occhi aperti».
«Meglio sognare a occhi aperti che affrontare altre due ore di lezione», disse Ben.
Alice si gettò nella conversazione con più entusiasmo di prima — forse un po’ troppo. A un certo punto vidi il suo sguardo incrociare quello di Edward, per un istante, e tornare a fissare Angela prima che chiunque potesse notarlo. Edward, muto, giocava distratto con una ciocca dei miei capelli. Aspettai con ansia l’opportunità di chiedergli cos’avesse visto sua sorella, ma il pomeriggio trascorse senza che riuscissimo a restare soli nemmeno per un minuto. Mi sembrava strano, come se lo facesse apposta. Dopo pranzo Edward rallentò il passo per seguire Ben e parlare con lui di un certo compito, che di sicuro aveva già svolto. Anche tra una lezione e l’altra, nei momenti in cui di solito riuscivamo a isolarci, c’era sempre qualcuno. Al suono dell’ultima campana, Edward attaccò bottone addirittura con Mike Newton, che intercettò mentre si dirigeva al parcheggio. Mi lasciai trascinare da Edward e li seguii.
Restai ad ascoltare, allibita, mentre Mike rispondeva alle domande stranamente amichevoli di Edward. A quanto pareva, la sua auto aveva qualche problema.
«...ma ho appena cambiato la batteria», diceva Mike. Lanciò un’occhiata nervosa altrove e tornò a Edward. Sbalordito, proprio come me.
«Magari sono i cavi?», ipotizzò Edward.
«Forse. Di macchine non ci capisco niente», confessò Mike. «Dovrei farla rivedere, ma portarla da Dowling mi costerebbe un patrimonio». Stavo quasi per consigliargli il mio meccanico, ma preferii tapparmi la bocca. Il mio meccanico era occupato: se ne andava in giro nei panni di un lupo gigante.
«Io qualcosa ne so... se ti va posso darci un’occhiata», propose Edward.
«Dopo che avrò portato a casa Alice e Bella».
Io e Mike restammo a guardarlo a bocca aperta.
«Ehm... grazie», mormorò Mike superata la sorpresa. «Ma devo andare a lavorare. Magari un’altra volta».
«Senz’altro».
«Ci vediamo». Mike saltò in macchina scuotendo la testa, incredulo. La Volvo di Edward, su cui già era seduta Alice, era poco lontana.
«Che storia è questa?», mormorai mentre Edward mi teneva aperta la portiera.
«Volevo soltanto rendermi utile», rispose.
Poi Alice, che ci attendeva sul sedile posteriore, iniziò a ciarlare a velocità massima.
«Non sei così bravo come meccanico, Edward. Faresti meglio a chiedere a Rosalie di darci un’occhiata stanotte, tanto per fare bella figura nel caso Mike decidesse di lasciarsi aiutare, sai com’è. Non che non sarebbe divertente vedere la sua faccia se fosse Rosalie a presentarsi. Ma siccome ufficialmente Rosalie frequenta un college dall’altra parte della nazione, immagino che non sia la più brillante delle idee. Peccato. Anche se penso che per l’auto di Mike le tue conoscenze basteranno. È soltanto quando si tratta di mettere le mani sulla meccanica raffinata delle sportive italiane che perdi la bussola. E a proposito di Italia e di auto sportive rubate laggiù, ricorda che mi devi una Porsche gialla. Non so se riuscirò ad aspettare fino a Natale...».
Dopo pochi istanti cessai di ascoltarla e lasciai che il suo rapido parlare si trasformasse in rumore di fondo, rassegnandomi a pazientare. Avevo la sensazione che Edward volesse evitare le mie domande. Bene. Ma prima o poi si sarebbe ritrovato solo con me. Era soltanto questione di tempo.
Anche lui sembrava rendersene conto. Scaricò Alice, come al solito, all’imbocco del vialetto dei Cullen, benché a quel punto quasi immaginavo che l’avrebbe lasciata di fronte a casa e accompagnata in camera sua. Quando scese, Alice gli lanciò un’occhiataccia. Edward sembrava completamente a proprio agio.
«A più tardi», le disse. E annuì in maniera quasi impercettibile. Alice si voltò e sparì tra gli alberi.
In silenzio invertì la marcia e puntò di nuovo verso Forks. Restai in attesa, nel dubbio che fosse lui a sollevare la questione. Non lo fece e finì per innervosirmi. Cos’aveva visto Alice a pranzo? Qualcosa che Edward non voleva farmi sapere, senza che avesse motivi evidenti per custodire un segreto. Forse era meglio prepararmi al peggio, prima di chiedere. Non volevo perdere la testa e convincerlo che avrei reagito male, di qualunque cosa si trattasse.
Perciò restammo entrambi zitti finché non fummo di fronte a casa di Charlie.
«Pochi compiti, stasera», commentò.
«Eh, sì».
«Secondo te ho ancora il permesso di entrare?».
«Quando sei venuto a prendermi, Charlie non ha fatto scenate». Eppure ero certa che mio padre avrebbe perso il buonumore all’istante se rientrando in casa mi avesse trovata in compagnia di Edward. Forse era il caso di preparare una cena superspeciale.
Appena entrata puntai verso le scale ed Edward mi seguì. Si accomodò sul mio letto a guardare fuori dalla finestra, sembrava indifferente al mio nervosismo.
Svuotai la borsa e accesi il computer. Dovevo occuparmi di una e-mail di mia madre a cui non avevo ancora risposto: quando aspettavo troppo andava nel panico. Tamburellai con le dita nell’attesa che il computer decrepito tornasse in vita ronzando; ticchettavo sulla scrivania a colpi secchi e nervosi.
Poi sentii le sue dita posarsi sulle mie per immobilizzarle.
«Siamo un po’ inquieti, oggi?», sussurrò.
Alzai lo sguardo, pronta a fare un commento sarcastico, ma trovai il suo viso più vicino di quanto avessi immaginato. I suoi occhi dorati ardevano a pochi centimetri da me e il suo respiro era freddo sulle mie labbra aperte. Ne sentivo il profumo sulla lingua.
Non ricordavo più la risposta sagace che stavo per dargli. Non ricordavo più neanche il mio nome.
Non mi concesse la possibilità di riprendermi.
Se avessi potuto fare di testa mia, avrei passato ogni giorno a baciare Edward. Nella mia vita non c’era niente di paragonabile alle sue labbra fredde e marmoree, ma sempre così delicate mentre si muovevano assieme alle mie.
Non riuscivo quasi mai a fare di testa mia.
Perciò fui un po’ sorpresa quando sentii le sue dita infilarsi tra i miei capelli e avvicinare il mio viso al suo. Con le mani mi afferrai decisa alle sue spalle e desiderai di essere tanto forte da farlo mio prigioniero. Una mano scivolò sulla mia schiena e mi strinse al suo petto roccioso. Pur coperta dal maglione, la sua pelle era così fredda che mi vennero i brividi: brividi di piacere, di felicità, che convinsero anche le sue mani a sciogliersi. Sapevo che mancavano circa tre secondi prima che sospirasse e mi allontanasse da sé con destrezza, spiegandomi che per quel pomeriggio avevamo messo già abbastanza a repentaglio la mia vita. Per approfittare dei miei ultimi istanti lo strinsi ancora più forte, adeguandomi alla sua posizione. Con la punta della lingua tracciai il contorno del suo labbro inferiore, liscio e perfetto come fosse stato appena lucidato, e con un sapore... Allontanò il mio viso sciogliendosi dalla presa con facilità. Probabilmente non si era neanche accorto che avevo usato tutte le forze che avevo. Fece una risata breve e gutturale. Il suo sguardo era acceso dall’eccitazione che aveva imparato a gestire così bene.
«Ah, Bella», sospirò.
«Vorrei dire che mi dispiace, ma non mi dispiace».
«E a me dovrebbe dispiacere che non ti dispiaccia, ma non mi dispiace. Forse è meglio che torni a sedermi sul letto».
Sbuffai, vagamente agitata. «Se pensi che sia necessario...». Con un sorriso sghembo sciolse l’abbraccio.
Scossi la testa, cercando di riordinare i pensieri, e tornai al computer. A quel punto era attivo e ronzante. Be’, più che ronzare, sbadigliava.
«Salutami Renée».
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