Anne Rice - Intervista col vampiro

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Intervista col vampiro: краткое содержание, описание и аннотация

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In una stanza d’albergo Louis racconta la sua vita ad un esterrefatto giornalista, la lunghissima, estenuante vita di un vampiro. Duecento anni assieme al suo maestro Lestat ed alla piccola Claudia, duecento anni in giro per il mondo, nascondendosi dalla luce e succhiando sangue…

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«Eppure sentivo la fine di questa pace con la stessa certezza con cui sentivo il mio breve abbandono a essa: si stava diradando come le nubi. Il dolore insostenibile per la perdita di Claudia m’incalzava, come una forma rappresa agli angoli di quella stanza ingombra e misteriosamente aliena. Ma fuori, mentre la notte sembrava dissolversi in un vento furioso, sentivo qualcosa che mi chiamava, qualcosa di inanimato che non avevo mai conosciuto. Una forza dentro me sembrava rispondere a quella forza, senza opporre resistenza ma con un impeto imperscrutabile e raggelante.

«Avanzai in silenzio per le stanze, aprendo delicatamente le porte finché, nella luce fioca e tremula delle lampade a gas, vidi la donna che dormiva coricata nella mia ombra sul sofà, la bambola floscia contro il petto. Qualche istante prima di inginocchiarmi accanto a lei vidi i suoi occhi aprirsi, e sentii, oltre le sue spalle, dove si raccoglieva il buio, quegli altri occhi che mi osservavano, il piccolo faccino di vampiro che attendeva col fiato sospeso.

«‘Ti prenderai cura di lei, Madeleine?’ Vidi quelle mani stringere la bambola, girarle la faccia verso il petto. E anche la mia mano si protese verso la bambola, anche se non sapevo perché, intanto che Madeleine mi rispondeva.

«‘Sì!’ ripeté ancora disperatamente.

«‘È questo che credi che sia, una bambola?’ le chiesi, chiudendo la mano sulla testa di porcellana. Me la strappò via, strinse i denti e mi guardò torva.

«‘Una bambina che non può morire! Ecco che cos’è’ rispose, come se pronunciasse una bestemmia.

«‘Aaaaah…’ mormorai.

«‘Ho finito con le bambole’ disse, lanciandola lontano tra i cuscini del sofà. Stava armeggiando con qualcosa che aveva sul petto: una cosa che voleva che vedessi e che non vedessi; le sue dita l’afferrarono e si chiusero. Sapevo che cos’era, l’avevo notato prima. Un medaglione fissato con una spilla d’oro. Vorrei poter descrivere la passione che contaminava le sue fattezze, com’era contorta la morbida bocca infantile.

«‘È la bimba che invece è morta?’ azzardai. Vedevo un negozio di bambole, di bambole tutte con la stessa faccia. Madeleine scosse la testa e tirò la spilla, strappando il taffetà. Vidi in lei la paura, un panico che la distruggeva. La mano sanguinava quando la aprì e mi mostrò la spilla rotta. Presi il medaglione dalle sue dita. ‘Mia figlia’ mormorò con le labbra tremanti.

«C’era un viso di bambola sul piccolo frammento di porcellana, il viso di Claudia, un viso di bambina, una zuccherosa, dolce imitazione dell’innocenza che vi aveva dipinto un artista, una bambina coi capelli corvini come la bambola. E la madre, terrorizzata, fissava l’oscurità davanti a sé.

«‘Dolore…’ mormorai con delicatezza.

«‘Ho finito col dolore’ rispose lei, socchiudendo gli occhi e mi fissò. ‘Se tu sapessi quanto desidero possedere il tuo potere; sono pronta, lo bramo!’ Mi si avvicinò, respirando profondamente, tanto che il suo seno sembrò gonfiarsi innaturalmente sotto l’abito.

«Ma una violenta delusione le straziò il viso. Si scostò da me, scuotendo la testa, i riccioli. ‘Se tu fossi un uomo mortale; uomo e mostro!’ esclamò rabbiosamente. ‘Se solo potessi mostrarti il mio potere…’ e mi fece un sorriso maligno, provocatorio ‘…potrei costringerti a volermi, a desiderarmi! Ma tu sei un essere contro natura!’ Gli angoli della bocca le si piegarono in giù. ‘Cosa posso darti! Cosa posso fare perché tu mi dia quello che hai!’ Si passò la mano sui seni, sembrò carezzarli come la mano di un uomo.

«Era un momento strano; strano perché non avrei mai potuto prevedere la sensazione che quelle parole suscitarono in me, il modo in cui guardavo quel vitino eccitante, la curva rotonda, piena, dei suoi seni e quelle labbra delicate, imbronciate. Non immaginava nemmeno lontanamente che cos’era in me l’uomo mortale, quanto ero tormentato dal sangue che avevo appena bevuto. La desideravo, più di quanto credesse: perché non capiva la natura dell’uccidere. E con orgoglio virile volevo provarglielo, umiliarla per quello che mi aveva detto, per la volgare vanità della sua provocazione, per gli occhi che guardavano lontano da me, disgustati. Ma questa era follia. Non erano queste le ragioni per concedere la vita eterna.

«E crudelmente, con fermezza, le domandai: ‘Amavi questa bambina?’

«Non dimenticherò mai il suo viso in quel momento, la sua violenza, il suo odio assoluto. ‘Sì’ mi sibilò in faccia. ‘Come osi!’ Allungò la mano per prendere il medaglione che stringevo tra le dita. Era il senso di colpa che la consumava, non l’amore. Era il senso di colpa — quel negozio di bambole che Claudia m’aveva descritto, scaffali e scaffali dell’immagine della bambina morta. Ma un senso di colpa che aveva capito perfettamente la finalità della morte. C’era in lei qualcosa di altrettanto duro della mia malvagità, qualcosa di altrettanto forte. Tese la mano, mi toccò il panciotto e aprì le dita, premendomele contro il petto. Io ero in ginocchio, m’avvicinavo a lei, e i suoi capelli mi sfioravano il viso.

«‘Stringiti forte a me quando ti prendo’ le dissi, vedendo i suoi occhi spalancarsi, le sue labbra schiudersi. ‘E quando il delirio è al culmine, ascolta più forte che puoi il battito del mio cuore. Tienti stretta a me e ripeti continuamente: Io vivrò’.

«‘Sì, sì’ annuiva, e il cuore le batteva violentemente per l’eccitazione.

«Le sue mani bruciavano attorno al mio collo, le sue dita si infilavano nel mio colletto. ‘Guarda laggiù, oltre me, quella luce; non togliere mai gli occhi da lì, neppure per un momento, e ripeti continuamente: Io vivrò’.

«Boccheggiò quando le lacerai la carne, la calda corrente mi entrava nelle vene; i suoi seni schiacciati contro il mio petto, il suo corpo inarcato, indifeso, sollevato dal divano. Vedevo i suoi occhi, persino quando chiusi i miei, la sua bocca stuzzicante, provocante. La succhiavo forte, tenendola sollevata, e sentivo che s’indeboliva; le mani le cadevano flosce lungo i fianchi. ‘Stringi, stringi’ le sussurrai nel caldo fiume del suo sangue, col tuono del suo cuore nelle orecchie; il suo sangue mi pulsava nelle vene ormai sazie. ‘La lampada’ sussurrai, ‘guardala!’ Il suo cuore rallentò, si fermò, e la sua testa cadde all’indietro sul velluto, i suoi occhi divennero opachi come in punto di morte. Per un attimo mi parve di non potermi muovere, eppure dovevo. Sentii che qualcun altro mi portava il polso alla bocca mentre la stanza girava, girava; mi concentravo su quella lampada come avevo detto di fare a lei, assaggiai il sangue dal mio polso e poi glielo misi a forza sulla bocca. ‘Bevi, bevi’ le dissi. Ma lei giaceva come morta. La strinsi a me, il sangue le colava sulle labbra. Poi aprì gli occhi, e sentii la delicata pressione della sua bocca e le sue mani che mi stringevano il braccio quando cominciò a succhiare. La cullavo, le sussurravo, cercavo disperatamente di spezzare il mio deliquio; poi mi sentii tirare in tutti miei vasi sanguigni. Mi succhiava con tale violenza che mi tenni aggrappato al divano con le mani, il suo cuore batteva furiosamente contro il mio, le sue dita si conficcavano profondamente nel mio braccio, nel palmo della mia mano tesa. Mi feriva, mi lacerava, tanto che quasi gridai, intanto che lei beveva e beveva; mi allontanai da lei, e poi me la tirai dietro; la vita mi scorreva via dal braccio, e il suo gemito seguiva il ritmo delle sue sorsate. Le mie vene, come fili metallici incandescenti, tiravano il mio cuore sempre più forte, finché, senza volerlo, mi staccai da lei, stringendo forte nella mano quel polso sanguinante.

«Lei mi fissava, e il sangue le macchiava la bocca aperta. Quel suo sguardo mi sembrò durare un’eternità: Madeleine si raddoppiava e triplicava nella mia vista offuscata, poi si fuse in una sola forma tremante. La mano le andò alla bocca, gli occhi non si mossero da me ma si dilatarono. Poi si alzò lentamente, non come per forza propria, ma come sollevata da qualche invisibile potere che la faceva girare per la stanza con occhi sgranati. La pesante gonna si muoveva rigida come fosse fatta di un unico pezzo, girava come un grande ornamento scolpito su un carillon, che danza inerme al suono della musica. All’improvviso Madeleine abbassò lo sguardo sul taffetà, lo afferrò, lo strinse tra le dita facendolo frusciare, poi lo lasciò cadere, si coprì subito le orecchie, chiuse gli occhi, poi li sbarrò di nuovo. Mi parve che vedesse la lampada, la lontana e fioca lampada a gas nell’altra stanza che mandava una luce fragile attraverso le doppie porte. Corse verso di essa e ci si fermò accanto, guardandola come se fosse viva. ‘Non toccare…’ le disse Claudia e la condusse via gentilmente. Ma Madeleine aveva visto i fiori sul balcone e ci si stava avvicinando con le palme aperte, sfiorò i petali e poi si portò le goccioline di pioggia sul viso.

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