Anne Rice - Scelti dalle tenebre

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Scelti dalle tenebre: краткое содержание, описание и аннотация

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Il libro racconta la storia del vampiro Lestat, da aristocratico raffinato nella Francia prerivoluzionaria allo stile rock di New Orleans degli anni ’80, scavando attraverso le sue molte differenti esistenze e indagando il mistero della sua persona unica e infinita

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Ogni notte, al mio ritorno in Carmel Valley, prendevo i sacchi delle lettere dei fan inoltrate da New Orleans a Monterey, e le sfogliavo cercando di scoprirne qualcuna scritta con la grafia tipica dei vampiri, i caratteri un po’ troppo calcati, lo stile un po’ antiquato… magari uno sfoggio più accentuato di talento sovrannaturale che faceva sembrare una lettera manoscritta simile a una stampa gotica. Ma non c’era nulla, tranne la fervida devozione dei mortali.

Caro Lestat, la mia amica Sheryl e io ti amiamo e non riusciamo a trovare i biglietti per il concerto di San Francisco, anche se abbiamo fatto la fila per sei ore. Ti prego, mandaci due biglietti. Saremo le tue vittime. Potrai bere il nostro sangue.

Le tre del mattino, prima del concerto di San Francisco.

Il fresco paradiso verde di Carmel Valley dormiva. Io sonnecchiavo nel gigantesco studio davanti alla vetrata rivolta verso i monti. Ogni tanto sognavo Marius. Nel sogno, Marius mi diceva:

«Perché hai sfidato la mia vendetta?»

E io rispondevo: «Mi hai voltato le spalle».

«Non è questa la ragione. Tu agisci d’impulso, vuoi buttare all’aria tutti i pezzi.»

«Io voglio influire sulla realtà, far accadere qualcosa!» dissi. Gridai nel sonno, e all’improvviso sentii intorno a me la presenza della casa di Carmel Valley. Era stato soltanto un sogno, un fragile sogno mortale.

Eppure qualcosa, qualcosa d’altro… una «trasmissione» improvvisa, come un’onda radio vagabonda che si insinuava nella frequenza sbagliata, una voce che diceva: Pericolo. Pericolo per tutti noi.

Per una frazione di secondo, una visione di neve e ghiacci. Un vento urlante. Qualcosa s’infranse su un pavimento di pietra. Vetro spezzato. Lestat! Pericolo!

Mi svegliai.

Non ero più sul divano. Ero in piedi e guardavo la porta a vetri. Non udivo nulla, non vedevo nulla se non il contorno indistinto delle colline, la sagoma nera dell’elicottero sul riquadro di cemento, come una mosca gigantesca.

Ascoltavo con l’anima. Ascoltavo così intensamente da sudare. Eppure la «trasmissione» non si ripeté, le immagini non riapparvero.

E poi la consapevolezza graduale che là fuori nell’oscurità c’era un essere e che io udivo suoni minuti.

Qualcuno camminava nel silenzio. E non emanava un odore umano.

Là fuori c’era uno di loro. Uno di loro aveva penetrato il muro della segretezza e si avvicinava, al di là della silhouette scheletrica dell’elicottero, attraverso l’erba alta.

Ascoltai di nuovo. No, neppure una vibrazione che rafforzasse il segnale di pericolo. La mente dell’essere era puntata su di me. Ricevevo solo i segnali inevitabili di una creatura che si muove nello spazio.

La grande casa bassa dormiva intorno a me… sembrava un gigantesco acquario con i muri bianchi e nudi e le luci azzurre e palpitanti del televisore muto. Tough Cookie e Alex erano abbracciati sul tappeto davanti al camino spento. Larry dormiva nella camera da letto simile a una cella in compagnia di una fan carnalmente instancabile, chiamata Salamander, che avevano «raccattato» a New Orleans prima della partenza per l’ovest. C’erano guardie del corpo addormentate nelle altre camere moderne, e nella portineria al di là della piscina azzurra come un guscio d’ostrica.

E là, sotto il cielo nero e sereno, l’essere si avvicinava, si avvicinava a piedi dalla direzione della strada. Era completamente solo. Il battito di un cuore sovrannaturale nell’oscurità. Sì, lo sentivo con chiarezza. Le colline erano fantasmi in lontananza, e i fiori gialli delle acacie brillavano chiari sotto le stelle.

Sembrava che non avesse paura di nulla. Si avvicinava. I suoi pensieri erano assolutamente impenetrabili. Poteva essere soltanto uno degli antichi e dei più esperti: ma se lo fosse stato, non avrebbe schiacciato l’erba sotto i suoi passi. Si muoveva quasi come un umano. Quel vampiro era stato creato da me.

Il mio cuore batteva irregolarmente. Guardai le minuscole spie luminose di un allarme seminascosto dai drappeggi nell’angolo. Le sirene avrebbero suonato se qualcosa, mortale o immortale, avesse tentato di penetrare nella casa.

Apparve al limitare del cemento chiaro. Una figura alta e snella. Capelli corti e scuri. Poi si soffermò come se potesse vedermi nella nebulosità blu-elettrica dietro il velo della vetrata.

Sì, mi vedeva. E si mosse verso di me, verso la luce. Era agile e si muoveva con troppa leggerezza per un mortale. Capelli neri, occhi verdi, e le membra che guizzavano sotto gli indumenti sciupati: un maglione nero e liso che gli pendeva informe dalle spalle, le gambe simili a lunghi pali neri.

Sentii un nodo stringermi la gola. Tremavo. Cercavo di ricordare ciò che era importante, persino in quel momento: dovevo scrutare la notte per cercare gli altri, dovevo essere guardingo. Pericolo. Ma non aveva più importanza. Sapevo. Chiusi gli occhi per un secondo. Non fu d’aiuto, non facilitò nulla.

Poi tesi la mano verso i pulsanti degli allarmi e li disattivai. Aprii i grandi battenti di vetro e l’aria fredda entrò nella stanza.

Aveva superato l’elicottero, e si voltava come un danzatore per guardarlo, con la testa piegata all’indietro, i pollici infilati con disinvoltura nelle tasche dei jeans neri. Quando mi guardò di nuovo, vidi distintamente la sua faccia. E sorrideva.

Anche la nostra memoria ci può tradire. Lui ne era la prova. Mentre si avvicinava, delicato e accecante come un laser, tutte le vecchie immagini si disperdevano come polvere.

Rimisi in funzione il sistema d’allarme, chiusi la porta e girai la chiave nella serratura. Per un secondo pensai: Non lo sopporto. E questo è soltanto l’inizio. E se lui è qui, a pochi passi da me, sicuramente verranno anche gli altri. Verranno tutti.

Mi voltai e mi incamminai verso di lui. Per un momento lo studiai in silenzio nella luce azzurra che filtrava dai vetri. Dissi, con voce tesa:

«Dove sono il mantello nero e la giacca splendidamente confezionata e la cravatta di seta e tutte le altre sciocchezze?»

Ci guardammo negli occhi.

Poi spezzò quell’immobilità e rise in silenzio. Ma continuò a studiarmi con un’espressione rapita che mi dava una gioia segreta. E, con l’audacia di un bambino, tese la mano e passò le dita sul bavero della mia giacca di velluto.

«Non si può sempre essere una leggenda vivente», disse. La voce era come un sussurro che non era un sussurro. E sentivo chiaramente il suo accento francese, sebbene non fossi mai riuscito a sentire il mio.

Stentavo a sopportare il suono delle sillabe, la loro completa familiarità.

E dimenticai tutte le frasi acide che avevo avuto intenzione di dire e lo presi tra le braccia.

Ci abbracciammo come non avevamo mai fatto in passato. Ci abbracciammo come un tempo facevamo io e Gabrielle. Poi gli passai le mani sui capelli e sul viso, per guardarlo come se appartenesse a me. Fece altrettanto. Parlammo e non parlammo. Voci sincere e silenziose, senza parole. Annuimmo un poco. E lo sentii traboccare d’affetto e di una soddisfazione febbrile che sembrava forte quasi quanto la mia.

Ma all’improvviso si fermò e il suo volto divenne un po’ tirato.

«Credevo che fossi morto, lo sai?» disse. La voce si udiva appena.

«Come mi hai trovato?» chiesi.

«Tu volevi che ti trovassi», rispose. Un bagliore di confusione innocente. Scrollò le spalle.

Tutto ciò che faceva mi magnetizzava come era avvenuto oltre un secolo prima. Le dita erano lunghe e delicate, e tuttavia le mani erano così forti.

«Hai lasciato che ti vedessi e ti seguissi», disse. «Giravi in macchina avanti e indietro in Divisadero Street e mi cercavi.»

«Eri ancora lì?»

«Per me è il posto più sicuro del mondo», rispose. «Non lo lascio mai. Sono venuti a cercarmi, non mi hanno trovato e se ne sono andati. Ora mi muovo tra loro quando voglio e non mi conoscono. In realtà, non hanno mai saputo che aspetto avessi.»

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