Anne Rice - Scelti dalle tenebre

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Il libro racconta la storia del vampiro Lestat, da aristocratico raffinato nella Francia prerivoluzionaria allo stile rock di New Orleans degli anni ’80, scavando attraverso le sue molte differenti esistenze e indagando il mistero della sua persona unica e infinita

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2.

Passarono due anni prima che fossi abbastanza forte per imbarcarmi per la Louisiana. Ero ancora invalido e sfregiato. Ma dovevo lasciare l’Europa, dove non mi era giunto neppure un sussurro della mia perduta Gabrielle o del grande e potente Marius, che sicuramente mi aveva giudicato.

Dovevo tornare a casa. E per me questa era New Orleans, dove i fiori non avevano mai smesso di fiorire, dove era caldo e dove, grazie alla mia inesauribile riserva di «denaro del reame», possedevo una dozzina di vecchie case vuote con colonne bianche fatiscenti e portici cadenti dove potevo aggirarmi.

Trascorsi gli ultimi anni dell’Ottocento in isolamento completo nel vecchio Garden District, a un isolato dal Cimitero Lafayette, nella più bella delle mie case, a dormire sotto le querce altissime.

Leggevo al lume delle candele o delle lampade a petrolio tutti i libri che riuscivo a procurarmi. Ero come Gabrielle prigioniera nella sua camera da letto al castello; ma io non avevo mobili. I mucchi di libri arrivavano al soffitto in una stanza dopo l’altra, e così mi spostavo. Ogni tanto trovavo abbastanza forza per fare irruzione in una biblioteca o in una vecchia libreria in cerca di volumi nuovi, ma uscivo sempre meno spesso. Ordinavo i periodici per posta. Facevo scorte di candele e bottiglie e latte di petrolio.

Non ricordo quando venne il secolo ventesimo; ricordo solo che tutto divenne più tetro e sgradevole, e la bellezza che avevo conosciuto nel secolo decimottavo sembrava più che mai una fantasia. I borghesi governavano il mondo in base a princìpi noiosi e diffidavano della sensualità e degli eccessi tanto amati dall’Ancien Regime.

Ma la mia vista e i miei pensieri si annebbiavano sempre di più. Non andavo più a caccia di umani. E un vampiro non può prosperare senza sangue umano e morti umane. Sopravvivevo attirando gli animali domestici del vicinato, i cani e i gatti. E quando non era facile procurarmeli, c’erano sempre i grassi ratti grigi che potevo chiamare a me come il Pifferaio Magico.

Una notte mi imposi di compiere il lungo tragitto, attraverso le strade tranquille, fino a un piccolo, modesto teatro chiamato Happy Hour, vicino alle catapecchie del porto. Volevo vedere il nuovo cinema muto. Ero infagottato in un cappotto con una sciarpa che mi nascondeva la faccia scarna. Portavo i guanti per nascondere le mani scheletrite. La vista del cielo di giorno, in quel film imperfetto, mi terrorizzò. Ma mi sembrava che i toni squallidi del bianco e nero fossero adatti per un’epoca incolore.

Non pensavo agli altri immortali. Ogni tanto, tuttavia, appariva un vampiro… un novizio orfano capitato per caso nel mio covo, oppure un vagabondo venuto in cerca del leggendario Lestat per chiedergli segreti e potere. Erano intrusioni orride.

Persino il timbro delle voci sovrannaturali mi spezzava i nervi, mi costringeva a rifugiarmi in un angolo. Tuttavia, per quanto la sofferenza fosse grande, scrutavo ogni mente per cercare qualche notizia della mia Gabrielle. Non ne scoprii mai. E dopo non mi restava nulla da fare se non ignorare le povere vittime umane che il mostro mi portava nella vana speranza di risanarmi.

Ben presto, comunque, quegli incontri finivano. Spaventato, irritato, l’intruso se ne andava bestemmiando e mi lasciava al benedetto silenzio.

Giacevo nel buio e mi allontanavo un poco di più dalla realtà.

Non leggevo più molto. E, quando lo facevo, leggevo la rivista Black Mask , le storie degli odiosi uomini nichilisti del secolo ventesimo, i corrotti vestiti di grigio, i rapinatori di banche, gli investigatori e cercavo di ricordare. Ma ero così debole. Così stanco.

E poi una sera venne Armand.

In un primo momento pensai che fosse un’illusione. Stava immobile nel salotto rovinato, e sembrava più giovane che mai, con i capelli fulvi tagliati a caschetto secondo la moda del ventesimo secolo e l’abito scuro.

Doveva essere un’illusione, la figura che era entrata nel salotto e mi guardava mentre giacevo riverso sul pavimento accanto alla porta-finestra sfondata e leggevo Sam Spade alla luce della luna. A parte una cosa. Se avessi evocato un visitatore immaginario, non sarebbe stato Armand.

Gli lanciai un’occhiata e provai un vago senso di vergogna per il mio essere così disgustoso: non ero altro che uno scheletro dagli occhi sporgenti. Ripresi a leggere la storia del Falcone Maltese, muovendo le labbra per pronunciare le battute di Sam Spade.

Quando rialzai lo sguardo, Armand era ancora lì. Forse era la stessa notte o forse la notte seguente, per quel che ne sapevo.

Parlava di Louis. Stava parlando di Louis da un po’ di tempo. E mi resi conto che era una menzogna, quella che mi aveva detto a Parigi. Louis era stato con lui per tutti quegli anni. E Louis mi aveva cercato. Louis era andato nella città vecchia, a cercarmi nei pressi della casa dove avevamo vissuto per molto tempo. E alla fine era venuto lì e mi aveva visto dalle finestre.

Cercai di immaginarlo. Louis, vivo. Louis lì, tanto vicino… e neppure me ne ero accorto.

Risi, credo. Non riuscivo a tenere presente che Louis non era bruciato. Era meraviglioso che fosse ancora vivo. Era meraviglioso che esistessero ancora quella bella faccia, quell’espressione suadente, quella voce tenera e un po’ implorante. Il mio bel Louis era sopravvissuto, non se n’era andato come Claudia e Nicki.

Ma forse era morto. Perché dovevo credere ad Armand? Tornai a leggere al chiaro di luna, rammaricandomi un po’ che le piante del giardino fossero cresciute tanto. Dissi ad Armand che avrebbe fatto bene a uscire e a strappare un po’ di quei rampicanti, dato che era tanto forte. I tralci delle campanule e dei glicini grondavano dai portici e bloccavano la luce della luna, e poi c’erano le vecchie querce nere che stavano lì da quando il giardino era ancora una palude.

Non credo, comunque, d’averlo davvero detto ad Armand.

Ricordo solo vagamente che Armand mi disse che Louis lo lasciava e che lui, Armand, non voleva continuare. Sembrava svuotato. Inaridito. Tuttavia attirava a sé il chiarore lunare, e la sua voce aveva tuttora la vecchia risonanza, le sfumature purissime di dolore.

Povero Armand. E mi avevi detto che Louis era morto. Va’ a scavarti una camera sotto il Cimitero Lafayette, è proprio in fondo alla strada.

Neppure una parola o una risata, ma solo il godimento segreto dell’ilarità. Ricordo un’immagine chiara di Armand, in mezzo alla stanza vuota e sporca, mentre guardava i libri accatastati tutto intorno. La pioggia era filtrata dalle falle nel soffitto e aveva saldato insieme i volumi come mattoni di cartapesta. E lo notai distintamente quando lo vidi ritto contro quello sfondo. Sapevo che tutte le stanze della casa avevano quei muri di libri. Non ci avevo pensato fino a quel momento, quando Armand incominciò a guardarli. Da anni non ero entrato nelle altre camere.

Pare che Armand sia tornato altre volte.

Non lo vedevo; ma lo udivo muoversi nel giardino, mentre mi cercava con la mente, come un raggio di luce.

Louis era partito per l’ovest.

Una volta, mentre giacevo tra i detriti sotto le fondamenta, Armand si avvicinò alla grata e mi sbirciò, e io lo vidi. Sibilò e mi chiamò acchiapparatti.

Sei impazzito… tu che sapevi tutto, tu che ridevi di noi! Sei pazzo e ti nutri di ratti. Sai? Anticamente in Francia chiamavano acchiappalepri voi signorotti di campagna, perché andavate a caccia di lepri per non morire di fame. E adesso cosa sei, qui in questa casa? Un acchiappatopi. Sei pazzo come gli antichi che smettono di ragionare e farneticano al vento! Eppure vai a caccia di ratti, perché sei nato per farlo.

E io risi. Risi e risi. Ricordai i lupi e risi.

«Mi fai sempre ridere», risposi. «Avrei riso di te sotto quel cimitero a Parigi, ma non sembrava che fosse il caso di farlo. E anche quando mi maledicesti e mi desti la colpa di tutte le storie in circolazione sul nostro conto… anche quello era divertente. Se non fossi stato sul punto di buttarmi dalla torre, avrei riso. Mi hai sempre fatto ridere.»

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