Anne Rice - Scelti dalle tenebre

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Scelti dalle tenebre: краткое содержание, описание и аннотация

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Il libro racconta la storia del vampiro Lestat, da aristocratico raffinato nella Francia prerivoluzionaria allo stile rock di New Orleans degli anni ’80, scavando attraverso le sue molte differenti esistenze e indagando il mistero della sua persona unica e infinita

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Era delizioso, l’odio tra noi. O almeno così pensavo. Era un’eccitazione familiare averlo lì per ridicolizzarlo e disprezzarlo.

Ma all’improvviso la scena intorno a me cominciò a cambiare. Non giacevo sui detriti. Camminavo attraverso la mia casa. E non portavo gli stracci luridi che mi avevano coperto per anni, ma una bella giacca a code e un mantello foderato di raso. E la casa, ah, la casa era bellissima, e tutti i libri erano al loro posto sugli scaffali. Il parquet brillava nella luce di un lampadario e da ogni parte giungeva la musica, il suono di un valzer viennese, la ricca armonia dei violini. A ogni passo mi sentivo di nuovo forte e leggero, meravigliosamente leggero. Avrei potuto salire i gradini a due a due. Avrei potuto spiccare il volo nella tenebra, con il mantello come due ali nere.

E poi salii nell’oscurità. Armand e io eravamo insieme sul tetto. Lui era radioso, nell’antiquato abito da sera, e guardavamo una giungla di alberi che stormivano e la curva lontana del fiume e il cielo basso dove le stelle ardevano tra le nubi grigioperla.

Piangevo nel vedere tutto questo e nel sentire il vento umido sul viso. E Armand mi stava accanto, mi cingeva con un braccio. Parlava di perdono e di tristezza, di saggezza e di cose apprese nel dolore. «Ti amo, mio fratello tenebroso», sussurrò.

Le parole scorsero dentro di me come sangue.

«Non volevo vendetta», bisbigliò. Il suo volto era turbato, il suo cuore infranto. «Ma sei venuto da me per essere guarito, e non mi volevi! Avevo atteso un secolo e non mi volevi!»

E seppi, come in realtà avevo sempre saputo, che il mio mutamento era un’illusione, che ero lo stesso scheletro cencioso, naturalmente. E la casa era ancora una rovina. E nell’essere sovrannaturale che mi sosteneva c’era il potere di restituirmi il cielo e il vento.

«Amami e il sangue è tuo», disse. «Il sangue che non ho mai dato ad altri.» Sentii le sue labbra contro il viso.

«Non posso ingannarti», risposi. «Non posso amarti. Cosa sei per me, perché ti ami? Una cosa morta assetata del potere e della passione di altri? L’incarnazione della sete?»

E in un momento di forza incalcolabile, fui io che lo colpii e lo feci cadere dal tetto. Era assolutamente privo di peso e la sua figura si dissolse nella notte grigia.

Ma chi era stato sconfitto? Chi precipitava fra i rami degli alberi, verso la terra, verso gli stracci e il sudiciume sotto la vecchia casa? Chi giaceva fra i detriti, con le mani e la faccia contro il suolo freddo?

Tuttavia la memoria gioca scherzi strani. Forse avevo immaginato il suo ultimo invito e l’angoscia successiva. Il pianto. So che, mentre i mesi passavano, Armand ritornò. Ogni tanto lo sentivo passare per le vecchie vie di Garden District. E volevo chiamarlo, spiegargli che gli avevo detto una menzogna e che l’amavo. L’amavo.

Ma per me era tempo d’essere in pace con tutte le cose. Era tempo di digiunare e di sprofondare nella terra e forse di sognare, finalmente, i sogni del dio. E come potevo parlare ad Armand dei sogni del dio?

Non c’erano più candele e non c’era più petrolio per le lampade. Da qualche parte c’era una cassaforte piena di denaro e gioielli e lettere ai miei avvocati e ai miei banchieri che avrebbero continuato per sempre ad amministrare le mie proprietà, grazie alle somme che gli avevo lasciato.

Quindi, perché non sprofondare nel terreno, sapendo che non sarebbe mai stato scavato, in quella vecchia città con le sue repliche cadenti di altri secoli? Tutto avrebbe continuato a esistere come prima.

Nella luce del cielo continuai a leggere la storia di Sam Spade e del Falcone Maltese. Guardai la data della rivista e vidi che era il 1929 e pensai: Oh, non è possibile… o sì? E bevvi sangue di ratto quanto bastava per avere la forza di scavare a una grande profondità.

La terra mi circondava. Esseri viventi strisciavano fra le zolle umide contro la mia carne inaridita. E pensai che, se mai fossi risorto, se mai avessi visto un piccolo tratto di cielo notturno pieno di stelle, non avrei mai più fatto cose terribili. Non avrei mai ucciso gli innocenti. Anche quando fossi andato a caccia dei deboli, avrei preso i disperati e i moribondi; lo giuravo. Non avrei più compiuto l’Opera Tenebrosa. Avrei… Ecco, lo sapete, sarei stato la «coscienza continuativa», senza uno scopo, senza nessuno scopo.

Sete. Una sofferenza chiara come la luce.

Vidi Marius. Lo vidi così nitidamente che pensai: Non può essere un sogno! E il mio cuore si dilatò dolorosamente. Marius era splendido. Portava un semplice abito moderno, ma di velluto rosso, e i capelli bianchi erano tagliati corti e pettinati all’indietro. Aveva un grande fascino, quel Marius moderno, e un’agilità scattante che l’abbigliamento del passato aveva a quanto pareva nascosto.

E stava facendo le cose più straordinarie. Aveva davanti una macchina nera su un treppiede e girava una manovella con la destra, e faceva film di mortali in uno studio pieno di luce incandescente. Il mio cuore si gonfiò nel vederlo, nel vedere il modo in cui parlava ai mortali e diceva loro come dovevano abbracciarsi e danzare e muoversi. Scenari dipinti dietro di loro, sì. E al di là delle finestre dello studio c’erano alti edifìci di mattoni, e il rumore delle automobili per la strada.

No, non è un sogno, mi dissi. Sta succedendo veramente. Marius è qui. E se tentassi di vedere la città oltre le finestre, se scoprissi dov’è! Se tentassi, potrei udire la lingua che parla ai giovani attori. «Marius!» dissi, ma la terra intorno a me divorò il suono.

La scena cambiò.

Marius scese in cantina dentro la grande gabbia di un ascensore. Le porte metalliche stridettero e sferragliarono. Entrò nel grande santuario di Coloro-che-devono-essere-conservati. E tutto era diverso. Niente più affreschi egizi, profumo di fiori e brillio d’oro.

Le pareti altissime erano coperte dei colori degli impressionisti, e con miriadi di frammenti formavano un mondo vibrante del secolo ventesimo. Gli aerei volavano sopra le città assolate, i grattacieli s’innalzavano oltre le arcate dei ponti d’acciaio, navi di ferro fendevano i mari argentei. Era un universo che dissolveva i muri su cui era raffigurato, e circondava le figure immobili e immutate di Akasha ed Enkil.

Marius si muoveva nella cappella, fra sculture aggrovigliate e apparecchi telefonici, macchine per scrivere su sostegni di legno. Mise un grande grammofono davanti a Coloro-che-devono-essere-conservati. Appoggiò delicatamente la puntina sul disco che girava. Dalla tromba metallica uscì un esile valzer viennese.

Risi nel vedere quella dolce invenzione posta davanti a loro come un’offerta. Il valzer era come l’incenso che saliva nell’aria.

Marius non aveva ancora finito. Aveva srotolato contro il muro uno schermo bianco. Da una piattaforma dietro il dio e la dea proiettò sullo schermo un film dei mortali. Coloro-che-devono-essere-conservati fissavano muti le immagini guizzanti. Statue in un museo, mentre la luce elettrica brillava sulla loro pelle bianca.

E poi accadde una cosa meravigliosa. Le figure sussultanti del film cominciarono a parlare. Parlavano veramente, nello stridore del valzer che usciva dal grammofono.

E mentre guardavo, paralizzato dall’eccitazione e dalla gioia di ciò che vedevo, una grande tristezza mi sommerse all’improvviso, una grande rivelazione schiacciante. Era soltanto un sogno. Perché in verità le figure del film non potevano parlare.

La camera e le sue piccole meraviglie persero ogni sostanza, si offuscarono.

Ah, orrida imperfezione, orrido indizio del fatto che avevo immaginato tutto. E l’avevo creato con frammenti di realtà… i film muti che avevo visto nel piccolo cinema chiamato Happy Hour, i grammofoni che avevo sentito intorno a me in cento case, nel buio.

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