— Ma come…
Gentilmente Tyrrel la condusse verso una porta chiusa. — Vieni con me, bambina mia. Voglio farti vedere una cosa.
Un attimo più tardi entrambi entrarono in quella che per breve tempo era stata la stanza di Cathy. Entrando, Tyrrel azionò un interruttore a lato della porta e una luce elettrica si accese.
— Qui non c’era la luce elettrica una volta.
— L’ho installata io qualche anno dopo la tua partenza. Ho avuto dei guai con… con le lampade a petrolio.
Aprendo il piccolo armadio a muro, Tyrrel ne estrasse un orsacchiotto di peluche e lo mostrò a Cathy.
— Ricordi questo, bambina mia?
— Sì, sì!
— E questa? — insistette, mettendole davanti la piccola scatola del pranzo. — L’ho portata per te da Canyon Village. La volevi tanto! Era qualcosa che ricordavi dal mondo esterno, prima che ci trasferissimo qui. Hai fatto fuoco e fiamme per averla, piccola mia, non so perché — le spiegò sorridendo. Poi, serio: — Forse speravi ancora di andare a scuola un giorno. Be’, immagino che tu ci sia riuscita.
— Sì, certamente. Ma questa scatola del pranzo… non so neppure io perché la volevo tanto. Ricordo però di aver pianto e supplicato per averla.
— E questo? Guarda! — esclamò Tyrrel aprendo una scatola metallica molto diversa, sistemata anch’essa nel piccolo armadio a muro. — Il tuo atto di nascita dev’essere qui da qualche parte.
Un attimo più tardi il vecchio padre trovò il certificato. Le pieghe del documento erano rigide per il tempo. — La data è quella del diciotto maggio 1930, come puoi vedere anche tu. Per qualche motivo tua madre l’aveva con sé quando venne qui.
Cathy guardò attentamente il documento. — Catherine Ann Young — lesse ad alta voce, sempre più meravigliata.
— Sei tu. Il nome di Sarah prima del nostro matrimonio era Young. Vedi, lei non sposò mai il tuo padre naturale. Certamente lo amava, per avere due figlie da lui. Forse era un uomo sposato; non le ho mai chiesto molto sul suo passato. Ero felice di averla al mio fianco così com’era — dichiarò, tacendo per un attimo. — Anzi, più che felice.
— Non posso crederci — commentò Cathy scuotendo la testa. — Questo vorrebbe dire che per quattro decenni, per tutta la metà di questo secolo, io non esistevo…
— Oh, la stessa cosa si può dire di te per molti millenni. Esistevi forse nel secolo scorso? Hai mai pensato che sono trascorse intere ere geologiche senza di te?
— Be’, sì, ma questo è assurdo!
— Cathy, io dubito che la tua vita sia molto più strana della mia — affermò Tyrrel, esitando. — Ma forse lo è, in certi dettagli. Consentimi però di dubitare che la mia vita o la tua siano le vite più strane mai vissute da un essere umano. D’altro canto — concluse sorridendo — tutti e due abbiamo ancora il tempo di recuperare!
L’atto di nascita era contrassegnato da due piccole impronte di piedi eseguite con inchiostro nero. Un piede destro e uno sinistro.
— Queste impronte corrispondevano alle tue — spiegò Tyrrel con voce gentile. — Mia cara, tu sei nata più di sessant’anni fa in California, proprio come afferma il certificato. Tua madre potrà raccontarti maggiori particolari, ne sono certo.
— Mia madre. Allora zia Sarah è mia madre.
— Sì, lei è tua madre. Vedrò di riportarti da lei sana e salva.
Gli occhi di Cathy si chiusero mentre esaminava incredula l’atto di nascita. Per un attimo parve quasi sul punto di svenire.
Poi allungò entrambe le braccia e cercò suo padre, abbracciandolo con molto più calore di prima.
Di nuovo la sua fu una goffa risposta.
Lasciandolo, lei disse ad alta voce: — Mi chiedo dove può essere andata Maria.
— Debbo andare alla grotta — disse Tyrrel all’improvviso, come se parlare di Maria gli avesse ricordato qualcosa di molto importante. — Per te è senz’altro meglio seguirmi. È più sicuro che aspettare qui.
— Più sicuro?
— Il Canyon Profondo è un posto pericoloso da visitare, ragazza mia. Finora ti è andata bene. E quando eri bambina, io ti proteggevo il meglio possibile. La tua sorellina… be’, lei non ha avuto la tua stessa fortuna. Ma tua madre ha dato la colpa solo a me — spiegò Tyrrel. La sua voce divenne poco più di un sussurro. — Seguimi. Se la tua amica è importante per te, forse riusciremo ancora ad aiutarla.
— Aiutarla? Ma perché, cosa sta succedendo?
— Seguimi, ti dico. Subito.
Una volta raggiunto l’ingresso della grotta, Cathy si fermò guardandosi attorno. — Ricordo benissimo questo posto — sussurrò. — Era il tuo laboratorio. La mamma mi diceva: “Papà sta lavorando”, e io mi avvicinavo piano piano e ti guardavo mentre scolpivi le tue statue nell’oscurità.
— È ancora il mio laboratorio, figliola — replicò Tyrrel inclinando leggermente la testa e ascoltando con attenzione. — La tua amica non è qui, purtroppo — dichiarò, per poi accendere le luci.
— A cosa lavori adesso, papà?
— Lavoro alla linfa vitale del nostro pianeta, mia cara. Lavoro sulla vita e sulla morte, e sul modo in cui le due riescono a unirsi. Perché vedi, nessuna può esistere senza l’altra.
— Papà! Cosa ti è successo? — esclamò Cathy allarmata. Là, alle forti luci della grotta, poté esaminare meglio le cicatrici sul volto del padre. Quelle che una volta dovevano essere orribili bruciature si erano lentamente ammorbidite e rimarginate, lasciando solo un’ombra di quello che un tempo doveva essere stato un devastante incidente.
— Cosa sono quelle cicatrici? — insistette Cathy. — Non le ricordo.
— Qualcuno ha tentato di uccidermi — le spiegò brevemente suo padre, voltandosi dal tavolo di lavoro. — Volevano… volevano bruciarmi vivo.
Il suo sguardo si addolcì quando vide l’orrore sul volto di sua figlia.
— Ma adesso è tutto finito — la rassicurò. — Per fortuna hanno fallito. Ed è successo molto tempo fa. Guarda, questa è la pietra su cui lavoro. Non ha nulla in comune con la banale roccia calcarea su cui scolpisco i miei lavori per Brainard. Ormai da tempo mi dedico interamente ad altre cose.
Tyrrel smise di parlare e ascoltò qualcosa nella notte. Guardò Cathy, e la sua espressione si fece preoccupata. Passarono diversi minuti prima che anche lei potesse udire ciò che sembrava angosciarlo. Voci umane, e sempre più vicine: sembravano quelle di due donne e un uomo.
Nella chiara luce del sole di mezzogiorno Jake ascoltò inorridito e immobile le urla provenienti da dietro la roccia, scheggiata e annerita, ma sempre dannatamente intera. Il mostro che cercava in tutti i modi di uccidere ovviamente viveva ancora.
In piedi accanto al suo compagno, Camilla si era tappata le orecchie con le mani, ma adesso univa le sue urla a quelle del vampiro.
La rabbia strappò Jake dalla sua momentanea paralisi. Con violenza e cattiveria schiaffeggiò più volte Camilla per tentare di strapparla a quello stato d’isteria. Un attimo più tardi lei si gettò tra le sue braccia singhiozzando, e lui cercò di confortarla. Poi la strinse per le spalle e la scosse energicamente. Urlando per farsi sentire sopra le urla di agonia di Edgar le disse: — Dobbiamo sistemare le altre cariche! Dobbiamo finirlo una volta per tutte!
Camilla tremava come una foglia. — Lo so, lo so! Adesso sto meglio.
Di nuovo Jake raccolse la mazza e lo scalpello. Altre due esplosioni rappresentavano la loro sola speranza. La dinamite c’era, e così gli inneschi.
Camilla ebbe un’ispirazione. — Ci siamo dimenticati del cherosene nelle lampade a petrolio! Corro alla casa a prenderlo.
— Ottima idea. Buttiamo dentro anche le lampade. L’importante è che quel fuoco continui a bruciare.
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