Frank Howard aveva altre ragioni che lo spingevano a offrirsi con tale dedizione al dipartimento. Non sembrava particolarmente ambizioso e nemmeno troppo preoccupato per questioni finanziarie. Per quanto ne sapeva Tony, Frank accettava di fare gli straordinari perché in realtà si sentiva vivo solo quando lavorava. L’unico ruolo che amava interpretare era quello di investigatore della Omicidi: solo in quella veste si sentiva realizzato.
Tony distolse lo sguardo dai fanalini rossi delle automobili che aveva davanti e studiò il viso del compagno. Frank non si accorse neppure di essere osservato. Era concentrato sulla guida e scrutava attentamente il flusso di traffico sul Wilshire Boulevard. La luce verdastra proveniente dalle spie del cruscotto illuminava i suoi lineamenti marcati. Non era bello nel senso classico del termine, ma aveva un suo fascino. Sopracciglia folte. Profondi occhi azzurri. Il naso un po’ troppo importante e affilato. La bocca ben disegnata assumeva spesso un’espressione corrucciata che metteva in evidenza la mascella robusta. Il viso era indubbiamente dotato di un certo fascino e lasciava trasparire tracce di una sincerità ostinata. Non era difficile immaginare Frank che tornava a casa, si sedeva e, immancabilmente ogni notte, cadeva in uno stato di trance che durava fino alle otto del mattino successivo.
Oltre alla disponibilità a lavorare più del necessario, Tony e Frank avevano altri punti in comune. Anche se la maggior parte degli investigatori in borghese avevano rifiutato le vecchie regole sull’abbigliamento e si presentavano in servizio indossando indifferentemente un paio di jeans o abiti sportivi, Tony e Frank erano convinti che fosse meglio portare la tradizionale cravatta. Si consideravano dei professionisti e svolgevano un lavoro che richiedeva una particolare abilità e un certo talento, un lavoro fondamentale e difficile come quello di un avvocato, un insegnante o un assistente sociale; anzi, forse era ancora più difficile e i jeans non contribuivano certo a creare un’immagine professionale. Nessuno dei due fumava. Nessuno dei due beveva quando era in servizio. E nessuno dei due aveva mai cercato di appioppare il proprio lavoro d’ufficio all’altro.
Forse un giorno le cose funzioneranno tra noi, pensò Tony. Forse con il tempo riuscirò a convincerlo a usare più tatto e meno forza con i testimoni. Forse riuscirò a risvegliare il suo interesse per i film e il cibo, se non proprio per i libri, l’arte e il teatro. Il motivo per cui ho tanti problemi ad adattarmi a lui è che forse sto puntando troppo in alto. Ma santo cielo, se soltanto parlasse un po’ di più, invece di starsene lì seduto come una mummia!
Per il resto della carriera come detective della Omicidi, Tony si sarebbe aspettato molto da chiunque avesse lavorato con lui perché per cinque anni, fino al mese di maggio, era stato affiancato da un compagno praticamente perfetto, Michael Savatino. Sia lui sia Michael provenivano da famiglie italiane e condividevano quindi gli stessi ricordi, gli stessi dolori e le stesse gioie. Inoltre, fattore ancora più importante, si avvalevano degli stessi metodi sul lavoro e amavano gli stessi passatempi. Michael era un divoratore di libri, un appassionato di cinema e un eccellente cuoco. Le loro giornate erano sempre state costellate da conversazioni estremamente interessanti.
Nel mese di febbraio, Michael e Paula, sua moglie, erano andati a Las Vegas per un fine settimana. Avevano assistito a due spettacoli. Avevano cenato due volte al Battista’s Hole in the Wall, il miglior ristorante della città. Avevano puntato su una decina di numeri senza vincere nulla. Avevano giocato a black jack e avevano perso sessanta dollari. Poi, un’ora prima della partenza, Paula aveva infilato un dollaro in una slot machine che le era parsa particolarmente invitante, aveva abbassato la leva e aveva vinto poco meno di duecentoventimila dollari.
Il lavoro di poliziotto non era mai stato la massima aspirazione di Michael. Ma, come Tony, era alla ricerca di un posto sicuro. Aveva frequentato l’accademia di polizia e da semplice poliziotto in uniforme era rapidamente diventato investigatore, ma sostanzialmente perché un lavoro del genere offriva una certa sicurezza economica. In marzo, comunque, Michael aveva presentato le dimissioni al dipartimento con sessanta giorni di preavviso e in maggio se n’era andato. Aveva sempre desiderato possedere un ristorante. Cinque settimane prima aveva aperto Savatino’s, un piccolo ma autentico ristorante italiano sul Santa Monica Boulevard, non lontano da Century City.
Un sogno che si era avverato.
Quante probabilità ho di realizzare i miei sogni come ha fatto lui? si chiese Tony mentre studiava la città avvolta dalle tenebre. Quante probabilità ho di andare a Las Vegas, di vincere duecentomila dollari, di lasciare la polizia e di tentare il colpo come artista?
Non era necessario esprimere quella domanda a voce alta. Non aveva bisogno del parere di Frank Howard. Conosceva già la risposta. Quante probabilità aveva? Ben poche. Aveva le stesse probabilità di scoprire che era il figlio disperso di uno sceicco arabo.
Se Michael Savatino aveva sempre sognato di aprire un ristorante, Tony Clemenza sperava un giorno di potersi guadagnare da vivere come artista. Aveva talento. Aveva realizzato opere raffinate con metodi diversi: a penna, ad acquerello e a olio. Non era soltanto dotato dal punto di vista tecnico, possedeva anche una capacità creativa assolutamente unica. Forse se fosse nato in una famiglia della media borghesia con discrete risorse economiche, avrebbe potuto frequentare un’ottima scuola, avrebbe ricevuto una buona educazione dai migliori professori, avrebbe affinato il talento ricevuto da Dio e sarebbe diventato un artista di successo. Invece si era costruito da solo, grazie a centinaia di libri d’arte e con ore e ore di diligenti esercizi di disegno e di sperimentazione con i diversi materiali. Inoltre soffriva di quella perniciosa mancanza di fiducia in se stessi che caratterizza gli autodidatti di qualsiasi settore. Anche se aveva partecipato a quattro concorsi, vincendo per ben due volte il primo premio nella sua categoria, non aveva mai pensato seriamente di lasciare il lavoro e di immergersi in una vita più creativa. Era solo una fantasia piacevole e ricorrente, un bel sogno a occhi aperti. Il figlio di Carlo Clemenza non avrebbe mai rinunciato allo stipendio di fine mese per le incertezze di un lavoro in proprio, a meno di vincere una montagna di soldi a Las Vegas.
Era invidioso del colpo di fortuna di Michael Savatino. Naturalmente, erano rimasti buoni amici ed era davvero felice per Michael. Contento. Sul serio. Ma anche invidioso. Dopotutto era un essere umano e ogni tanto nella sua mente si riaccendeva quell’interrogativo, simile a un’insegna al neon: Non poteva capitare a me?
Frank premette il pedale del freno e suonò il clacson alla Corvet che gli aveva tagliato la strada, strappando Tony dai suoi sogni. «Stronzo!»
«Calmati, Frank.»
«A volte vorrei essere ancora in divisa, per appioppare qualche bella multa.»
«È l’ultima cosa che desideri al mondo.»
«Gli farei un bel culo.»
«E magari salta fuori che è fuori di testa per la droga o che non ha tutte le rotelle a posto. Quando lavori in mezzo al traffico per molto tempo, hai la tendenza a dimenticare che il mondo è pieno di pazzi. Ti abitui alla routine e diventi meno attento. Magari lo fermi oppure ti avvicini con il blocchetto delle multe in mano e quello ti dà il benvenuto con una pistola. Magari ti fa saltare le cervella. No. Sono contento di non avere più a che fare con il traffico. Perlomeno, quando lavori alla squadra Omicidi, sai che genere di persone ti puoi trovare davanti. Sai bene che ci può essere qualcuno che ti aspetta con una pistola, un coltello o una spranga in mano. Quando lavori alla squadra Omicidi è molto meno probabile che ti facciano una bella sorpresina.»
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