«Forse dovremmo intervenire,» suggerì Tony.
«Quell’indirizzo è a un paio di isolati da qui,» proseguì Frank.
«Potremmo arrivarci nel giro di un minuto.»
«Probabilmente molto prima di una pattuglia.»
«Vuoi andarci?»
«Certo.»
«Li chiamerò per informarli.»
Tony sollevò il microfono mentre Frank svoltava rapidamente a sinistra al primo incrocio. Al secondo isolato svoltarono nuovamente a sinistra e Frank premette il piede sull’acceleratore, per quanto gli fu possibile, lungo una strada stretta e fiancheggiata dagli alberi.
Il cuore di Tony si mise a battere all’impazzata. Avvertiva l’eccitazione di un tempo e una paura gelida gli attanagliava lo stomaco.
Gli venne in mente Parker Hitchison, un collega particolarmente funereo, cupo e pessimista che aveva dovuto sopportare per un po’ durante il secondo anno passato alla polizia, molto tempo prima che diventasse investigatore. Ogni volta che rispondevano a una chiamata, ogni dannatissima volta, sia che si trattasse di un’emergenza con Codice Tre, o di un gatto spaventato finito in cima a un albero, Parker Hitchison sospirava con aria desolata e bofonchiava: «Questa volta è fatta.» Era fastidioso e decisamente di cattivo auspicio e ogni volta, durante ogni turno, giorno dopo giorno, con lo stesso pessimismo sincero e snervante, ripeteva: «Questa volta è fatta.» A Tony pareva di impazzire.
La voce funerea di Hitchison e quelle quattro parole gli risuonavano ancora nella mente in momenti come quello.
Questa volta è fatta.
Frank svoltò nuovamente, andando quasi a sbattere contro una BMW nera posteggiata troppo vicino all’incrocio. Le gomme fischiarono, la macchina slittò e Frank disse: «La casa dovrebbe essere da queste parti.»
Tony cercò di mettere a fuoco gli edifici immersi nell’oscurità, solo parzialmente illuminati dai lampioni. «Credo sia quella,» esclamò.
Era una grande casa in stile neoispanico, con un vasto giardino e leggermente rientrata rispetto alla strada. Tetto in tegole rosse. Stucco color panna. Finestre con le inferriate. Due grandi lampioni in ferro battuto ai lati della porta d’ingresso.
Frank posteggiò sul vialetto circolare.
Scesero dalla berlina.
Tony infilò una mano sotto la giacca ed estrasse dalla fondina la pistola di ordinanza.
Quando Hilary ebbe finito di piangere seduta alla scrivania dello studio, decise di andare al piano di sopra e di rendersi presentabile prima dell’arrivo della polizia. Aveva i capelli completamente scarmigliati, il vestito strappato e le mutandine a brandelli che le penzolavano fra le gambe in modo ridicolo. Non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato la polizia ad arrivare dal momento della diffusione del messaggio radio, ma sicuramente si sarebbero presentati di lì a poco. Era diventata un personaggio famoso dopo aver scritto due film di successo e aver ricevuto una nomination all’Oscar per Pete, l’ambiguo due anni prima. Aveva sempre cercato di difendere la sua privacy evitando la stampa per quanto possibile, ma sapeva che in un caso del genere avrebbe dovuto necessariamente rilasciare una dichiarazione e rispondere ad alcune domande su quanto era accaduto quella notte. Era il genere di pubblicità che non le piaceva. Era imbarazzante. Era sempre umiliante ammettere di essere la vittima di un caso del genere. Anche se in teoria avrebbe dovuto accattivarsi le simpatie e la comprensione della gente, in realtà avrebbe fatto la figura della sciocca, della fanciulla sola alla mercé del primo venuto.
Era riuscita a difendersi dall’attacco di Frye, ma gli amanti delle sensazioni forti non ci avrebbero nemmeno fatto caso. Le fredde immagini della televisione e le foto in bianco e nero dei giornali l’avrebbero dipinta come una donna debole. Lo spietato pubblico americano si sarebbe chiesto perché aveva fatto entrare Frye. Avrebbero insinuato che era stata violentata e che aveva finto di averlo cacciato per crearsi una copertura. Alcuni avrebbero affermato che era stata lei a invitarlo a entrare chiedendogli di essere violentata. E la maggior parte della comprensione le sarebbe pervenuta mescolata a una curiosità morbosa. Davanti ai giornalisti avrebbe potuto contare solo sul proprio aspetto. Non poteva permettere che la fotografassero nello stato pietoso nel quale l’aveva lasciata Bruno Frye.
Mentre si lavava il viso, si pettinava i capelli e si infilava un abito in seta stretto in vita da una cintura, non pensava che in quel modo avrebbe danneggiato la propria credibilità presso la polizia. Non si accorse che, rendendosi presentabile, avrebbe dato adito sicuramente a qualche sospetto e a qualche dubbio e forse sarebbe stata accusata di essere una bugiarda.
Sebbene fosse convinta di aver recuperato la padronanza di sé, Hilary ricominciò a tremare mentre finiva di vestirsi. Le gambe sembravano di gelatina e fu costretta ad appoggiarsi contro l’armadio per un paio di minuti.
La mente brulicava di immagini terrificanti, ricordi dolorosi che avrebbe voluto cancellare per sempre. Dapprima vide Frye che si avvicinava con il coltello, con un ghigno spettrale, poi quell’immagine sembrò mutare, fondendosi in un’altra figura, in un’altra identità: era diventato suo padre, Earl Thomas, ed era Earl che le andava incontro, ubriaco e arrabbiato come sempre, e la colpiva violentemente con quelle sue mani enormi. Scosse la testa e respirò profondamente, riuscendo, con un grande sforzo, a cancellare quella visione.
Ma non riusciva a smettere di tremare.
Le pareva di udire strani rumori in un’altra stanza della casa. Una parte di lei sapeva che erano solo frutto della sua immaginazione, ma l’altra parte era sicura che Frye stesse tornando da lei.
Quando si precipitò al telefono e compose il numero della polizia, non fu più in grado di fornire la dichiarazione calma e ragionata che si era imposta. Gli avvenimenti di quell’ultima ora avevano influito su di lei più profondamente di quanto avesse pensato in un primo momento e le ci sarebbero voluti giorni o forse settimane per riprendersi dallo choc.
Quando riappese il ricevitore si sentì decisamente meglio perché sapeva che stavano per correre in suo aiuto. Mentre scendeva le scale esclamò a voce alta: «Stai calma. Cerca di stare calma. Sei Hilary Thomas. Sei dura. Dura come l’acciaio. Non hai paura. Non hai mai paura. Andrà tutto bene.» Era la stessa litania che aveva ripetuto tante volte da bambina nell’appartamento di Chicago. Quando arrivò al pianterreno, sentì di aver riacquistato il dominio di se stessa.
Era in piedi nell’ingresso e stava osservando fuori della finestra, quando una macchina si fermò nel vialetto. Scesero due uomini. Anche se non erano arrivati con le sirene spiegate, capì che erano della polizia e aprì la porta per farli entrare.
Il primo che notò era di corporatura robusta, biondo, occhi azzurri e la classica voce dura e risoluta dei poliziotti. Aveva in mano una pistola. «Polizia. Lei chi è?»
«Thomas,» rispose. «Hilary Thomas. Sono io che vi ho chiamato.»
«Questa è casa sua?»
«Sì. C’era un uomo…»
Dall’oscurità apparve un secondo detective, più alto e più scuro del precedente, che la interruppe prima che potesse finire la frase. «È ancora nei dintorni?»
«Che cosa?»
«L’uomo che l’ha assalita è ancora qui?»
«Oh, no. E fuggito. Se n’è andato.»
«Da che parte?» chiese l’investigatore biondo.
«E uscito da questa porta.»
«Aveva una macchina?»
«Non lo so,»
«Era armato?»
«No. Voglio dire, sì.»
«Sarebbe a dire?»
«Aveva un coltello. Ma ora non più.»
«Da che parte è fuggito quando è uscito dalla casa?»
«Non lo so. Ero di sopra. Io…»
«Da quanto tempo se n’è andato?» domandò l’investigatore più alto.
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