Sempre più alto, sempre più nero.
«Maledizione! Maledizione! Lasciami solo!»
Don si inginocchiò, tenendo allungate le braccia, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime e sentiva il sangue scorrergli sulla faccia febbricitante e dolorante.
Tracey nascose il viso dietro la schiena del ragazzo.
Don continuava a urlare, agitando le braccia per scacciare la nebbia provocata dallo stallone che oscurava il fuoco verde, che nascondeva gli occhi verdi. La nebbia sparì all’improvviso, come una finestra spalancata dal vento.
Don arretrò trattenendo il respiro per il gelo mortale che aveva sfiorato, si girò e circondò con le braccia Tracey in segno di protezione. Lei si strinse a lui disperatamente ed entrambi si misero a osservare il temporale, mentre la pioggia penetrava la nebbia per cadere finalmente libera.
E poi si ritrovarono soli; lo stallone se n’era andato.
«Oh, Don», mormorò Tracey, mentre lui l’aiutava a rimettersi in piedi. «Oh, Dio, ho avuto tanta paura.»
«Sì», rispose lui e cominciò a trascinarla per il sentiero, tanto da costringerla a correre per mantenere il ritmo.
«Don! Don, che cosa…»
Lui non rispose. La guardò serio per un istante, poi cominciò a correre, ma facendo attenzione a non lasciarla troppo indietro. Svoltò a sinistra, verso casa, e Tracey lo seguì tenendosi una mano sulla spalla ferita. Non fece domande e lui ne fu contento, perché non era sicuro di quello che stava facendo.
La polizia se n’era andata. I giardini e le case circostanti erano al buio. Si sorprese alla vista del pezzo di compensato inchiodato alla finestra, ma non si fermò per guardare più da vicino. Fece di corsa gli scalini e afferrò la maniglia della porta.
«Oh, merda!» urlò picchiando un pugno sulla porta. «Maledizione, è chiusa a chiave.» Si girò e ridiscese, esitando sul vialetto, prima di trascinare Tracey nel garage. Qui, la porta era aperta, allora entrò in cucina e si spinse fino all’ingresso. Non diede nemmeno un’occhiata al disastro del salotto, non si accorse del gelo che impregnava le pareti, e si precipitò su per le scale in camera sua.
Tracey lo seguì, con gli occhi pieni di dolore.
Don accese la luce e guardò il poster sulla scrivania. «Oh, Dio», disse.
Gli alberi, il sentiero, ed eccolo là, lo stallone immortalato nella corsa.
Mi dispiace, pensò; mi dispiace.
Lo staccò dalla parete, lo arrotolò in una palla e si precipitò di nuovo giù per le scale, verso la cucina. Dopo due inutili tentativi, riuscì ad accendere il fornello e mise il poster sulla fiamma finché non lo vide incendiarsi.
«Don? Don, aiutami.»
Quando sentì il fuoco che si stava avvicinando al polso, lasciò cadere la carta in fiamme nel lavandino e rimase a guardare che bruciasse per bene, che scoppiettasse, che si annerisse, riducendosi in polvere nera.
«Don, ti prego, aiutami.»
«Sì», disse. «Don, il Superman, sta per salvarti.»
Una fredda serata di fine ottobre, domenica, tempo sereno. La luna era chiazzata da ombre grigiastre e le stelle erano troppo brillanti per essere offuscate dalle luci sottostanti; di tanto in tanto soffiava il freddo alito di un debole venticello che trasportava l’eco dei suoni notturni attraverso gli alberi, spingeva le foglie morte nei tombini, faceva rotolare le ghiande sui cornicioni e schiaffeggiava le mani e i visi della gente, in una rigida promessa d’inverno. Una fredda serata di fine ottobre, domenica. Buio.
…e allora il ragazzo, che non era così cattivo come lo credeva la gente, a causa di tutto ciò che aveva fatto, alzò lo sguardo verso l’albero…
«Don, per l’amore del cielo, mi vuoi lasciare in pace per un po’? Io non sono uno dei tuoi stupidi bambini, lo sai. Non credo alle favole.»
Lui rise sommessamente al telefono e si appiattì contro il muro, allungando le gambe, che andarono a puntellarsi contro la scala. Le piante dei piedi nudi assaporarono la dolce sensazione di freddo sul legno. «Pensavo che ti piacessero le mie storie. Pensavo che avessi bisogno di sentire qualcosa che distogliesse la tua mente dai cattivi pensieri.»
Tracey emise un lamento. «Sto soffrendo, veterinario, te ne ricordi? Sono una paziente dell’unico ospedale al mondo che serva cibo scartato dalla Convenzione di Ginevra nella seconda guerra mondiale. E non voglio essere torturata.»
«Torturata?» ripeté lui, alzando la voce come se fosse stato insultato. «Non riesco a ricordare che tu abbia mai pensato a me in questi termini.»
«Non mi riferivo a te», rispose lei dolcemente, «ma a quello che dici.»
«Lo so», disse lui, altrettanto dolcemente. «Stavo scherzando.»
«Oh.» Una pausa, poi lei si costrinse a ridere. «Capisco. Stavi scherzando.»
L’acqua scorreva in cucina. Alzò lo sguardo e notò che suo padre era al lavandino, con l’asciugamano sulle spalle e una sigaretta spenta che gli ciondolava dalla bocca. Era la stessa scena che vedeva ormai da tre giorni.
«Be’, ascolta», disse Don.
…e vide il corvo che sedeva sul ramo più alto dell’albero più grande del mondo. Un corvo gigante. Il più grande corvo che avesse mai visto in vita sua. E il ragazzo si rese conto, immediatamente, che quel corvo sarebbe stato l’unico amico che possedeva al mondo. Poi si mise a parlare con il corvo e disse…
«Basta», pregò Tracey, ridendo. Poi, improvvisamente seria: «Ti prego, Don. Basta così. Me l’hai promesso».
Lui sospirò e annuì. «Va bene.»
«Ti senti bene?»
«Sono io che dovrei farti questa domanda, non trovi?»
«Lo sai come sto io. Voglio sapere come stai tu.»
Stava bene, pensò, tutto considerato. Dopo aver accompagnato Tracey in ospedale con la station wagon, lottando contro la pioggia che imperversava, aveva aspettato che portassero anche Jeff. Trauma cranico e qualche emorragia interna, gli avevano detto, niente di più, e la sua dichiarazione alla polizia era stata accettata senza fare altre domande — era andato a fare una passeggiata dopo aver lasciato suo padre e aveva notato l’incidente, era corso a casa per telefonare a qualcuno e aveva incontrato Tracey, che vagava in stato confusionale. Aveva dedotto che fossero slittati per via del temporale, aveva detto.
Sua madre era ancora in stato di incoscienza e il dottor Naugle gli aveva raccomandato suo padre. Doveva dormire, doveva mangiare, così sarebbe stato pronto quando sua madre si fosse ripresa.
«Don, io devo andare. Sono arrivate le guardie con le pillole.»
«Va bene», disse Don. «Tornerò domani.»
Riappesero, poi lui andò in cucina, osservò in silenzio suo padre per qualche minuto e poi salì in camera sua. Era esausto, si lasciò cadere sul letto e si addormentò quasi istantaneamente, svegliandosi solo a mezzanotte per svestirsi e tornare a dormire.
A scuola, lunedì, non parlò con nessuno, evitando gli occhi imbarazzati di tutti, saltando la lezione di biologia tenuta dal supplente. Andò a correre per un’ora, sentendosi stranamente distaccato dal rumore che i suoi passi facevano sul percorso della pista. Era come se fosse sospeso in un tunnel, alla ricerca di qualcuno che conosceva, ma che non riusciva a trovare. Poi tornò a casa per preparare la cena a suo padre. Norman mangiò poco, per via di tutte le sigarette che fumava in quei giorni, poi spostò da parte il piatto e se ne andò dalla stanza senza dire una parola.
Don non lo seguì. Pulì i piatti, li asciugò e li ripose nell’armadio, poi andò di sopra a cambiarsi per prepararsi alla visita serale a sua madre, a Jeff e a Tracey. Quando ridiscese, Norman era sulla porta e faceva tintinnare nervosamente le chiavi della macchina a noleggio.
«Sai», disse, mentre guidava sulle strade bagnate, «mi sembri tremendamente calmo in questi giorni.»
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