Charles Grant - La carezza della paura

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Si voltò, come se volesse andarsene, poi cambiò idea e indicò la strada con un braccio rigido che cominciò a tremare.

«E lei se ne va via con lui, proprio quando ho bisogno di lei! Che razza di amore è mai questo, eh? Che razza di amore può mai essere quando hai…»

La nebbia e poi rosso. E l’ombra scura tra gli alberi.

«Che cosa devo fare?» domandò. «Che cosa devo fare?»

Uno zoccolo strisciò sull’erba (fuoco verde), gli occhi si rimpicciolirono e poi alzò la testa.

Il cavallo si allontanò. Lo osservò e improvvisamente si rese conto di quanto aveva detto, proprio nel momento in cui il rosso svaniva insieme con le fiamme.

«No, aspetta un minuto», disse e allungò una mano. «Dio, no, non intendevo dire…»

Era sparito.

Don aprì la bocca, ma non emise alcun suono.

Era sparito, la nebbia si attorcigliava in un vortice di nero e fuoco, e ormai non c’erano più domande da fare su quello che intendeva dire Tracey.

Non lo stava aiutando di certo. Lo stava proteggendo contro il dolore e non faceva differenza che lui lo volesse o meno. Quando lui ci restava male, la causa veniva eliminata, qualunque essa fosse. Che lui la conoscesse o meno.

Tracey? Oh, Gesù, ti prego, Tracey, no!

L’ansia lo sfigurò, la paura lo fece vacillare, e, per quanto urlasse, si perdeva tutto nel vento, nella pioggia fredda che colava sul suo viso.

20

Tracey lo vide nello specchietto retrovisore esterno.

L’improvvisa ondata di pioggia aveva costretto Jeff a rallentare, le luci dei negozi e dei lampioni si riflettevano sull’asfalto come macchie caleidoscopiche e rimbalzavano sul parabrezza. I tergicristalli funzionavano al massimo, ma era quasi impossibile vedere dove stavano andando. Lei stava per chiedere a Jeff di accostare e di aspettare che passasse il peggio, quando i suoi occhi si posarono sullo specchietto retrovisore.

E lo vide.

E, improvvisamente, fu troppo tardi per parlare, troppo tardi per girare, troppo tardi per spiegare come mai l’aria si era fatta così pesante nei suoi polmoni e come mai si era messo a piovere così forte.

Si girò appoggiandosi al cruscotto, per guardare la strada vuota alle loro spalle. Non si vedevano altro che i riflessi delle gocce d’acqua che rimbalzavano sull’asfalto. E la nuvola di nebbia che si stava avvicinando verso di loro, frastagliata dalle folate di vento, scivolava sotto le macchine parcheggiate e nei tombini intasati. Non era più alta dei pali telefonici, non raggiungeva il marciapiede — li seguiva come se fossero loro a trascinarla, e quando raggiunsero una zona di negozi privi di luci, si accorse degli occhi verdi, del fuoco verde, dell’ombra più scura della notte.

«Jeff», mormorò con voce piena di paura.

«Ragazzi, stava malissimo», disse Jeff, alle prese con il volante, per evitare che la macchina scivolasse sull’asfalto oleoso del viale. «Dio, non so come faccia a trattenersi, sai? Se fossi in lui, andrei alla ricerca della scogliera più vicina, hai capito quello che intendo dire.»

«Jeff, ti prego.»

«Trace, sto facendo del mio meglio, ma non posso fermarmi qui. Non c’è abbastanza spazio. Vuoi che arrivi un autobus e che ci trascini fino a New York? Sta’ calma, siamo quasi arrivati.»

La pioggia rimbombava sul tetto della macchina; i segnali autostradali si illuminavano come dei lampi quando venivano colpiti dai loro fari.

«Jeff, va’ più veloce.»

Jeff si voltò verso di lei, meravigliato. «Cosa? Più veloce? Ma se mi hai appena detto di rallentare, Tracey!»

«Cristo, Jeff, non discutere.»

La vide che si guardava alle spalle e controllò nello specchietto retrovisore, sobbalzando alla vista della nuvola bianca che riempiva tutto il finestrino posteriore. «Che cosa diavolo è? Non può essere la pioggia, non sto andando così veloce.»

Le fiamme verdi si attorcigliavano sulla macchina.

Tracey chiuse gli occhi e si mise a pregare. Persino parlandone con Don, non era riuscita a crederci, pensando di essere stata contagiata dalle sue fantasie, dal suo incomprensibile e inutile bisogno di doversene andare per un po’ di tempo. Sapeva che cosa intendeva dire, ma non fino a quel punto, aveva avuto anche lei momenti del genere, ma mai tali da rendere tutto reale.

Un fiocchetto bianco andò a depositarsi sul suo finestrino e lei lo cacciò con ansia, augurandosi fosse soltanto la condensazione del suo respiro.

Ma non se ne andò, non riusciva a cancellarlo, allora si girò verso Jeff, implorandolo di andare più veloce.

«Tracey, guarda…»

La nebbia cominciò a inondare il finestrino davanti, Tracey soffocò un urlo, appoggiò il piede su quello dell’amico e premette l’acceleratore a tavoletta.

Jeff gridò di paura, la spinse di lato e la macchina cominciò a slittare da una parte all’altra della strada, mancando per un pelo un’auto parcheggiata, un bidone della spazzatura e il ciglio del marciapiede. Girò il volante e premette leggermente i freni, tenendo la bocca aperta e imprecando senza togliere gli occhi dalla strada.

Ormai li aveva affiancati. E mentre guardava di lato, Tracey sussurrò il nome di Don.

«Tracey», mormorò ansiosamente Jeff. «Che cosa sta succedendo?»

Lei si girò di nuovo verso di lui, richiamata dalla sua voce terrorizzata. Gli occhiali gli erano scivolati sul naso e, per questo, continuava a tenere la testa all’indietro, non osando staccare le mani dal volante per sistemarseli. Era pallido e nell’abitacolo stretto dell’auto aveva la faccia madida di sudore.

Il vento li aveva avvolti, facendoli sbandare, e il tergicristallo sul suo lato si era inceppato.

«Devo fermarmi», disse Jeff. «Stiamo andando troppo veloci, devo fermarmi, altrimenti andremo a sbattere…»

«No!» urlò lei e tornò a cercare l’acceleratore.

Jeff allungò freneticamente una mano verso di lei e la afferrò alla gola, ributtandola sul sedile, poi si voltò lentamente e vide con orrore che lo stallone si stava avvicinando alla portiera.

L’animale abbassò il muso, lo sguardo sempre attentissimo.

Jeff si mise a urlare e la macchina cominciò a slittare, aiutata dal vento e dalla pioggia. Tracey allungò una mano verso il cruscotto nel tentativo di aggrapparsi e mise l’altra mano sulla maniglia della portiera, pronta a saltare fuori.

La macchina fece un testacoda e continuò la sua corsa, sbattendo contro il marciapiede e andando infine a schiantarsi contro un albero, uscito improvvisamente dalla nebbia. Jeff venne catapultato sul volante e quando Tracey fu in grado di rimettere a fuoco la vista lo trovò ancora in quella posizione, con un rivolo di sangue che gli colava dall’angolo della bocca e le braccia che gli penzolavano ai lati.

«Jeff! Oh, Jeff, ti prego!»

Lo abbracciò, lo scrollò, ma non ottenne altro che di farlo scivolare di fianco, sul suo grembo. La nebbia cominciò a filtrare da una crepa del finestrino.

«Jeff, mi dispiace, mi dispiace.» Lo rizzò a sedere, aprì con un calcio la portiera e cadde in ginocchio sulla strada. Socchiudendo gli occhi per la pioggia, cercò di capire quanto fosse lontana da casa sua e dallo stallone.

Ma si vedeva soltanto la foschia provocata dalla pioggia e la sagoma scura della macchina che sfidava immobile l’imperversare del vento.

In piedi, ordinò a se stessa, e ci riuscì; ricomponiti, si disse, e ci riuscì, realizzando in quel momento che avevano superato di molto la sua strada.

Il viale era vuoto.

Passò dietro la macchina e, tenendosi i capelli lontani dagli occhi, si avvicinò alla portiera del guidatore. Il vento la spinse violentemente contro l’auto, causandole una fitta di dolore alla spalla che si diffuse a spirali giù per la schiena. Rimase senza fiato. La bocca aperta si stava riempiendo di pioggia. Sputò e tentò un’altra volta, gemendo.

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