Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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«Oh, Cristo, Tom, ma stai ragionando?» Norman afferrò una rivista come se volesse gettarla chissà dove. «Per prima cosa non riesci più a trovare i test. Secondo, lo ammetti tu stesso, non c’è niente che dimostri che Boston non è stato investito da un’auto. E mi rifiuto di credere che mio figlio, grazie a qualche potere misterioso, sia riuscito ad assoggettare due uomini e un ragazzo per picchiarli a morte, uno addirittura in mezzo al viale del parco.»

Si lasciò cadere all’indietro pesantemente. «Inoltre, si trovava in casa quando è stato ammazzato Hedley e si trovava con Tracey Quintero quando Falcone…» Si mise a tossire. Si rifiutava di ripeterlo per l’ennesima volta.

Verona alzò le mani, più in segno di frustrazione che di sconfitta e Norman si dispiacque per lui. In effetti, lui sapeva che era stato suo figlio. Quell’uomo si stava aggrappando a ogni piccolezza che riusciva a trovare, ma solo lo scontro di Don con lo Squartatore e i vaghi test di laboratorio potevano offrire un collegamento.

«Joyce», disse Verona, «ha fatto spesso il suo nome.»

«Be’, Cristo, è suo figlio!»

Joyce era finalmente riuscita a piombare in un sonno profondo e Naugle li aveva fatti entrare tutti e due in camera quando aveva iniziato a mormorare qualcosa in sogno.

«Ha anche nominato un cavallo, se ti ricordi bene.» Fece un breve sorriso triste. «Ti dirò una cosa: io crederò alla macchina nella mia scuola, se tu crederai al cavallo in casa mia.»

«Forse è stata drogata!»

«Per l’amor del cielo, sii serio!»

Era stanco. Voleva tornare a casa. L’unica notizia decente della serata era stata che John Delfield si era fatto aiutare da qualche vicino a costruire un pannello in compensato per coprire provvisoriamente la finestra distrutta. Annotò mentalmente di passare da lui per dargli una mancia, anzi, forse persino un assegno per rifondergli la spesa del materiale.

Si aprì una porta ed entrò Naugle. Norman si alzò di scatto.

«Le ho fatto un’iniezione», annunciò il dottore. «Non ho avuto scelta.»

«Un’iniezione? E perché?»

«Non dormiva abbastanza profondamente», rispose Naugle. «Sta avendo qualche brutto incubo e non voglio che si indebolisca più di quanto non sia già.»

«Benone», disse Norman, tornando a sedersi. «Davvero splendido.»

«Dovresti andare a casa anche tu.»

Norman era sul punto di annuire, ma poi cambiò idea. Voleva restare. Se fosse andato via, gli sarebbe venuta voglia di vedere se Chris era ancora a casa, nel suo letto, se … Scosse la testa e rabbrividì e Naugle gli diede una pacca sulle spalle.

Un’automobile entrò nel parcheggio, abbagliandoli con i fari. Don si riparò con una mano e imprecò sommessamente, ma Tracey si limitò a battergli una spalla e si alzò in piedi.

«Credo che sia Jeff», disse, mentre osservava la macchina che svoltava per andare a parcheggiare.

«Jeff?»

Stava già camminando verso di lui. «Sì, gli ho chiesto di darmi un passaggio. È chiaro che non potevo domandarlo a mio padre.»

«Be’, ti avrei accompagnato io, lo sai», protestò Don, seguendola verso l’auto, «Dio, Tracey…»

Lei si voltò e gli mise una mano sul petto. «Non adesso, Don, okay?»

«Ma che cos’hai intenzione di fare? A proposito del…»

Tracey incavò le guance mordendosele dall’interno. «Non lo so. Davvero … non lo so.»

Si aprì la portiera e Jeff, con gli occhiali bianchi per il riflesso della luce, sorrise mestamente quando Don si abbassò verso di lui.

«Ehi, amico, mi dispiace.»

«Già. È … sì, grazie.»

Tracey si infilò tra di loro e gli prese una mano, se lo tirò vicino e lo baciò. «Ecco», disse con un sorrisetto di soddisfazione. «Ecco fatto.»

«Ma io ho bisogno di te», la pregò Don, ignorando lo sguardo sorpreso di Jeff. «Che cosa devo fare adesso? Ho bisogno di te, Tracey.»

«Lo so. E ci vedremo domani, okay? Se non me ne vado adesso, non potrò più uscire di casa se non per il mio funerale.» Lo baciò di nuovo, velocemente. «Ti prego, Don, resta qui, va bene? Io starò bene se tu resti qui. Tornerò domani, per prima cosa.»

«Prometti», le disse lui con decisione.

«Prometto.»

Non gli andava, ma non poteva farci niente. Aveva ragione e lui lo sapeva, ma non gli andava lo stesso. Come non gli piacque dover fare un breve rapporto sullo stato di sua madre a Jeff, che continuava ad appoggiarsi a Tracey per fargli domande; infine, la ragazza gli batté su una spalla costringendolo a mettersi al volante.

La macchina fece manovra e sparì, lasciando Don ad assaporare il suo bacio, il tocco della sua mano, mentre un senso di frustrazione gli cresceva nel petto.

Avrebbe dovuto rimanere!

Se lo amava davvero…

Distolse lo sguardo e lo rivolse al viale d’ingresso.

Lo amava?

Ma come diavolo poteva amarlo e ferirlo tanto nello stesso momento, lasciandolo solo nel momento in cui lui aveva bisogno di lei per evitare di impazzire, lasciandolo solo quando lui aveva bisogno di lei per trovare una via di fuga?

Si cacciò le mani nella tasca del giaccone e si mise a osservare il suo respiro che si trasformava in nebbiolina.

Forse aveva ragione, pensò allora. Doveva essere così.

Il vento scosse i ciliegi, facendo scricchiolare i rami come se fossero sul punto di spezzarsi.

Ma doveva essere con lui, pensò; non avrebbe dovuto lasciarmi solo nel momento del bisogno. Non avrebbe dovuto farlo! Alzò un pugno e si costrinse a fatica a portarselo alla bocca, invece di scuoterlo in direzione della macchina di Jeff.

Dannazione, Jeff! Maledizione a te, e pensare che dovresti essere amico mio!

Il vento era tagliente sopra l’ospedale. Si vide luccicare una goccia d’acqua nel raggio di luce, poi un’altra sul viale d’ingresso, poi ne sentì una cadergli sulla mano.

Sentì il rumore di uno zoccolo, leggero sull’erba.

Abbassò lo sguardo sul manto verde e si accorse di uno strato di nebbiolina che gli abbracciava le gambe.

Si voltò lentamente, osservò i ciliegi che oscillavano, stringendo gli occhi per proteggersi dalla polvere sollevata dal vento.

Poi notò le due macchie verdi nell’aria, vide un paio di fiammate che si levavano da terra e si accorse dello stallone che gli stava di fronte immobile.

Sentì le gambe molli, lo stallone mosse la testa e Don si avvicinò, ignorando la tensione che gli pesava sullo stomaco, ignorando i pungiglioni che sentiva negli occhi. Si mosse sull’erba e allungò una mano.

Aveva il collo tiepido, liscio e il naso, che gli annusava il palmo della mano, sembrava fatto di velluto.

«Dio», sussurrò, senza aggiungere altro.

Il cavallo nitrì sommessamente, mentre Don piegava il capo e vedeva fiammate color smeraldo che illuminavano la nebbia.

«Me l’ha portata via», disse. «Me l’ha portata via e lei dovrebbe amarmi.» Fece scivolare le mani sulla criniera immobile, nonostante il vento, e continuò ad accarezzargli il collo. Sobbalzò alla vista del fuoco. «La sai una cosa?» gli disse dolcemente. «Papà pensa che sia stato io — la casa, il signor Falcone.» Appoggiò la guancia contro la criniera nera e tiepida. «Quello stronzo.» Un altro sobbalzo e sentì che i polmoni si stavano scaldando. «Quel bastardo. E la sai un’altra cosa? La sai un’altra cosa? Il poliziotto è tornato e continua a controllarmi come se fossi un delinquente da quattro soldi.» Faceva fatica a respirare e, nell’oscurità, riusciva a vedere anche delle macchie rosse. «Era la mia medaglia, era il mio momento, e Brian ha rovinato tutto. Donny Paperino, maledetto!» Si allontanò e i sussulti al petto continuarono senza tregua. «Non posso nemmeno ricevere una stupida medaglia senza che ci sia qualcuno che me la vuole portare via! Che cosa diavolo devo fare, eh? Che cosa diavolo devo fare?»

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