«Ehi, veterinario, ci sei ancora?»
«Sì, certo», disse scuotendosi.
«D’accordo.» Il tono era pacato. «Pensavo te la fossi presa per domani. O perché ti ho chiamato veterinario.»
«Non importa. Davvero.» Il filo del telefono gli si era attorcigliato attorno al polso e non poteva liberarsene senza staccare la cornetta dall’orecchio, perdendo così quello che lei stava dicendo. «Davvero, non sto scherzando.»
E lo diceva sul serio. A lei sembrava una bellissima cosa che lui stesse così vicino agli animali per il resto della sua vita. Da quando lui se l’era lasciato sfuggire, lei aveva iniziato immediatamente a fantasticare: Io immaginava mentre lavorava in campagna, andando di paese in paese, di fattoria in fattoria, assicurandosi che tutti gli animali fossero in perfetta salute.
Lei parlava sul serio.
Brian e Tar pensavano che fosse troppo bello per essere vero — Paperino che curava le papere. Per circa una settimana, ogni volta che lo vedevano, avevano continuato a fare qua-qua e a sbattere le braccia, raccontandogli di avere l’ernia e di essere costretti a nuotare stando in piedi.
«Allora?» disse lei, «credevo mi avessi detto che il compito di biologia era una stupidata.»
Continuarono a parlare come facevano di solito; terminati i preliminari, il suo cuore sembrò ritrovare l’esatta posizione. A un certo punto entrò sua madre con un panino e una birra, e lo guardò con aria interrogativa. Lui sorrise.
«Una ragazza?» chiese in silenzio.
Lui annuì con il capo.
«Chris Snowden?»
Lui scosse la testa e borbottò qualcosa in risposta a una domanda di Tracey.
Sua madre scosse le spalle — non importa, tesoro, a condizione che sia una donna e che non voglia sposarti prima che tu finisca la scuola — e se ne andò, dopo aver controllato il suo occhio nero, ancheggiando lungo il corridoio e ritornando nella stanza della televisione. Era la solita vecchia storia ed entrambi lo sapevano.
«Don, dannazione, mi stai ascoltando?»
«Era mia madre», disse quasi in un bisbiglio, assicurandosi che la zona fosse libera. «Mi stava spiando.»
«Oh, be’, ai miei non importa nulla, a patto che lui porti i pantaloni, si pettini i capelli e sia ricco. Secondo mio padre dovrei sposarmi un anno dopo essermi diplomata.»
«Credevo volessi continuare gli studi.»
«Infatti è così. È solo che lui non ne è ancora convinto. Dio mio, quell’uomo vive ancora nel secolo scorso, credimi.»
«Dai, raccontami.»
«Sì, certo.» Urlò qualcosa dietro a sua sorella, quindi si udì la voce di sua madre che borbottava alle sue spalle. Poi si intromise una voce profonda — era suo padre che suggeriva all’intera famiglia di andare al diavolo.
«Dunque», continuò lui, «che cosa stavi dicendo?»
«La passeggiata. Dove sei andato?»
«Fuori. Al parco.»
«Accidenti!» Una pausa, un sussurro. «Accidenti, Don, non ascolti mai le notizie alla radio?»
Guardò indietro, verso la cucina, e vide la radio di sua madre sullo scaffale. «No. Non ho tempo.»
«Be’, faresti meglio ad ascoltarle», lo rimproverò lei, a voce bassa. «Stanotte è stato ucciso qualcuno proprio là. Un paio d’ore fa. Mio padre è appena tornato e…» Si fermò. «Cristo, ma allora tu eri là!»
Don si mise una mano sulla guancia e si grattò leggermente. «Non ho visto niente. Non ho sentito niente.» La mano premette un po’ più forte. «Cos’è successo?»
«Non lo so. Mio padre non dice niente. Secondo le notizie della radio, si tratta di un ragazzo dell’Ashford Nord, stava tornando a casa e l’hanno beccato. Hanno detto … credono si tratti dello Squartatore. È orribile.»
«Già.»
Ferro contro ferro.
«Ma non capisci? Potresti essere un testimone, o qualcosa del genere.»
«Ma non ho visto niente, Tracey! Cristo, non dirlo a tuo padre.»
«Okay.» Sua madre la interruppe e lei rispose in tono brusco, rimpiangendo di non essere figlia unica. «Ehi, veterinario, qual è il tuo animale preferito?»
Don tirò su con il naso, pettinandosi i capelli con una mano e cercò di usare la fantasia per porre delle immagini nell’aria davanti a sé. «Sai una cosa? Non ci ho mai pensato. Accidenti, è buffo, ma non ci ho mai pensato.» Gli venne in mente la sua camera e iniziò a catalogare tutti i manifesti, le fotografie e le stampe che possedeva. «I cavalli, credo. Ma non lo so. I leopardi e le pantere.»
Lei scoppiò a ridere e qualcuno dietro di lei ridacchiò per prenderla in giro. «Non sapevo che cavalcassi.»
«Le pantere? Non si possono cavalcare le pantere.»
«No, sciocco, i cavalli. Non sapevo proprio che andassi a cavallo.»
«Non ci vado.»
Ci fu una pausa e una voce maschile iniziò a borbottare.
«E allora perché proprio i cavalli?»
«Non lo so.» Vide il poster, il cavallo, e strinse le spalle nel corridoio vuoto. «Hanno un’aria … non so come spiegartelo, sono così grandi e forti, non ti pare? Potrebbero calpestarti senza nemmeno rendersene conto.»
«I cavalli?»
«Certo.»
«Ma sono stupidi.»
«Immagino.»
«Volevo dire. Sono…» La voce dell’uomo si era fatta più forte e lei mise una mano sul telefono. Cercò di distinguere quelle voci, ma dal tono riuscì solo a capire che stavano litigando. «Don, devo andare, adesso.»
«Sì, certo.»
«Ci vediamo domani?»
«Certo! Certo. Ti…»
Lei riappese e lui rimase in piedi in mezzo al corridoio, con lo sguardo fisso sulla porta, fino a quando suo padre gli passò davanti per andare di sopra e gli ricordò con tono gentile che il giorno dopo sarebbe dovuto restare a scuola per la punizione. Don annuì.
Norman, a metà delle scale, guardò verso il basso e aggrottò le sopracciglia, fu sul punto di dire qualcosa, poi cambiò idea.
Don non se ne accorse nemmeno.
Stava guardando la porta e il cavallo nero che vi era impresso sopra; Tracey Quintero lo stava cavalcando.
Cinque minuti più tardi, passò Joyce a dargli un pizzicotto sul sedere. Don sobbalzò, arrossendo alla sua risata e annuendo quando lei gli ricordò di controllare che le luci e la porta fossero chiuse. Mentre spegneva le luci, iniziò a pensare a Tracey e al ragazzo che era stato ucciso. Poteva anche darsi che avesse davvero udito l’assassino e che questi, temendo la sua testimonianza, tornasse per ucciderlo.
Rabbrividì e fece molta attenzione nel chiudere le tende; poi controllò due volte per assicurarsi che i catenacci della porta di ingresso e di quella di servizio fossero ben chiusi. Quindi corse di sopra, nella sua stanza. Per un attimo pensò di parlarne con i suoi genitori, poi cambiò idea. Sua madre si sarebbe eccitata e avrebbe chiamato la polizia; suo padre avrebbe detto a entrambi che non c’era nulla di cui preoccuparsi: il ragazzo stava bene e dal momento che non aveva visto nulla, non aveva senso farsi coinvolgere.
E avrebbe avuto ragione; non aveva proprio senso.
Quindi si lavò e controllò che la faccia non si fosse gonfiata ulteriormente da quella mattina e che il suo occhio non fosse peggiorato. Poi chiuse la porta e si sedette a gambe incrociate sul letto. Indossava soltanto le mutande e si mise a guardare attorno a sé — la pantera, il puma, gli elefanti, respingendoli silenziosamente, uno alla volta, fino ad arrivare al manifesto appeso sopra la scrivania.
Ecco, pensò; ecco ciò di cui ho bisogno.
«Ehi, senti», disse al cavallo appena visibile, «spero che non ti dispiaccia se non ti do un nome. Voglio dire, potrei benissimo dartene uno, ma i nomi che mi piacciono sono già stati usati, e almeno la metà di questi si riferiscono a cavalli di film celebri, o cose del genere. E poi», aggiunse, osservando la pantera nella giungla, sopra il suo letto, «non voglio che gli altri si arrabbino.»
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