Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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«Hai fatto proprio una cosa stupida, Boyd.»

«Fatto cosa?» Il naso gli faceva male. Aveva un mal di testa che gli arrivava fin dietro il collo. Indicò la boccetta. «Quella? Io non ho fatto niente.»

«E allora chi è stato? Il fantasma di Samuel Ashford?»

La testa gli faceva male; Cristo se gli faceva male.

«Allora, Boyd?»

Cercò di spiegargli l’incidente: stava salendo le scale quando qualcuno — due o tre persone, non lo sapeva con esattezza, non aveva visto — quando qualcuno era passato correndo e gli aveva messo in mano quella boccetta.

Hedley buttò indietro la testa e la appoggiò di lato.

«Ma io non ho fatto niente!»

«Signor Boyd, abbassi la voce.»

«Ma non sono stato io!»

Hedley afferrò di nuovo il suo braccio e Don si liberò dalla stretta. «Non sono stato io, dannazione!» disse in tono cupo.

Hedley stava per replicare, quando un mormorio lo fece voltare: Norman Boyd stava uscendo dalla sua classe. Il preside si fermò a parlare con parecchi studenti, mandandoli poi via, probabilmente in infermeria, con una pacca sulle spalle. Quando fu abbastanza vicino, Hedley, incurante della muta protesta di Don, spiegò che qualcuno aveva aperto la porta del laboratorio durante un compito in classe, lasciando cadere sul pavimento una boccetta di solfuro di idrogeno.

«Proveniente da questa», disse, indicando la boccetta con aria drammatica, «che ho trovato in mano a suo figlio, lassù in cima alle scale.»

Boyd si schiarì la voce e alzò un sopracciglio.

Don gli raccontò tutta la storia, parlando velocemente e mettendosi sulla difensiva, e quando ebbe finito fissò suo padre con un’aria della quale non si sarebbe mai creduto capace.

Boyd prese la boccetta, l’annusò e fece una smorfia. «Nel mio ufficio.»

«Ma papà…»

«Fai come ti ho detto. Vai nel mio ufficio.»

Don guardò il professore di chimica, che stava ridendo con aria compiaciuta, guardò i ragazzi ancora in piedi, che continuavano a bisbigliare e a fare smorfie. Quell’odore di uova marce lo faceva star male. Boyd chiuse la boccetta con il fazzoletto e ripeté l’ordine per la terza volta.

«D’accordo», mormorò, girandosi e andandosene.

«Ehi, Don», gli urlò qualcuno mentre usciva, «digli che è stato il corvo gigante!»

Norman era seduto sulla sua sedia, con una mano sulla guancia e un occhio chiuso, come se stesse prendendo la mira con un’arma invisibile. C’erano un mucchio di schede da compilare, se solo avesse trovato il tempo necessario; la scrivania era piena di lettere in attesa di una risposta e di documenti che non era ancora riuscito a esaminare. Appoggiata sul tampone di carta assorbente, c’era la boccetta di Adam Hedley ancora coperta dal fazzoletto penzolante.

Allungò un dito per toccarla, darle un colpetto, rigirarla, poi la mano tornò a coprire l’altra guancia.

Norm, ragazzo mio, pensò, sarai anche un uomo intelligente, ma sei uno stupido figlio di puttana.

Un brivido gli attraversò la parte posteriore del collo e l’uomo rabbrividì con violenza nel tentativo di farlo cessare, poi alzò lo sguardo e notò che l’ufficio era scuro. Diede un’occhiata oltre la finestra, ed emise un lamento; il sole era ormai tramontato e i lampioni erano accesi, lungo la via della scuola il traffico era composto da gente che tornava a casa dal lavoro o dalla spesa.

Era potenzialmente solo nell’edificio. Soltanto lui nel suo ufficio, mentre i custodi scopavano i corridoi e l’auditorio, lavavano le lavagne e probabilmente rubavano qualcosa dai magazzini del seminterrato.

«Stupido», mormorò fissando la boccetta. «Stupido e poi ancora stupido; meriteresti una bella lezione.»

Dio santo, come poteva credere che fosse stato davvero Don a lanciare quella boccetta nell’aula di Hedley? Come poteva crederlo? Ma forse stava soltanto cercando di convincersi che il ragazzo era davvero normale e faceva cose normali come tutti i ragazzi normali.

Era questo il problema — pensare che Don fosse diverso. Ma non lo era. Era perfettamente a posto, a volte in modo snervante, e, come tutti i ragazzi, aveva qualche strana idea in testa. E poi c’era Norman Boyd che, dimenticandosi per un attimo di tutto, giocava a recitare la parte del Re delle Montagne, del Signore delle Colline, e dettava le leggi come se fosse stato Mosè.

Come aveva fatto suo padre.

Per la prima volta dopo molto tempo, avrebbe voluto che Joyce fosse lì con lui, per ricordargli che non era Wallace Boyd, che non lavorava in fabbrica e che Don non era quel Norman che lottava per uscire dai bassifondi. Con un gemito silenzioso, ripensò a quando Joyce gli aveva detto di aspettare un bambino per la prima volta. Aveva giurato su ciò che aveva di più caro che lui avrebbe fatto di meglio, che sarebbe stato presente — un porto sicuro per le tempeste infantili, una solida roccia alla quale aggrapparsi quando il vento si faceva troppo forte. Un padre: niente di più e niente di meno.

Si coprì il viso con le mani e tirò un profondo sospiro. Si trattava della pressione, ecco cos’era. Dopo la morte di Sam, aveva iniziato ad avvertire quella pressione; non sapeva né come né perché, ma c’era. E lo stava aspettando. Gli bisbigliava che Donald doveva essere protetto a qualsiasi costo. E quando si rese conto della futilità e dell’irrazionalità di quella pressione, non si accorse di aver preso la direzione opposta rispetto alla vita del ragazzo.

Si trattava della pressione.

Aveva bisogno di un attimo di respiro. Aveva bisogno che Falcone e i suoi insegnanti cedessero e ponessero termine allo sciopero. A quel punto avrebbe potuto metterli in disparte, e mettere in disparte anche il consiglio, e la stampa, e il sindaco, tutto quel dannato mondo lo avrebbe lasciato finalmente in pace e avrebbe potuto riprendere i contatti con suo figlio.

Era già scoppiato due volte: prima, per l’annuncio di Don circa il suo desiderio di diventare veterinario, e poi quel pomeriggio.

Due volte, e improvvisamente ebbe una grande paura.

Sua moglie si stava disinnamorando di lui.

Che cosa sarebbe successo se anche suo figlio avesse fatto lo stesso?

…e poi il corvo si rese conto di quanto stesse male il ragazzo, e allora volò via dall’albero, nella notte…

Il parco era deserto. Una leggera brezza si insinuava fra i rami, facendo tremare le poche foglie rimaste e facendole poi cadere a terra nell’oscurità, attraverso i fasci di luce bianca e fino al sentiero, fino allo stagno, in pigre capriole, per poi fermarle come isole galleggianti sulla superficie.

Non c’era nessuno.

Si udiva solo il rumore soffocato del traffico.

…e trovò il re cattivo solo nella sua stanza. Allora entrò dalla finestra e, prima che il re potesse svegliarsi e difendersi, il corvo gigante gli aveva già strappato entrambi gli occhi!

L’unica luce era concentrata sullo specchio ovale. Una luce fioca, senza calore, senza peso, che lo avvolse mentre, seduto su una panchina con lo sguardo fisso sull’acqua, scrollava le spalle per scacciare il freddo.

Teneva gli occhi chiusi.

Le labbra si muovevano appena, come se stessero tremando.

Poi il corvo gigante entrò nel castello e trovò il fratello del re cattivo, uomo altrettanto cattivo e meschino. Allora il corvo gigante gli lacerò la gola con un solo colpo dei suoi potenti artigli.

Le case che stavano di fronte al parco erano nascoste dagli alberi e dai prati, e il viale che lo attraversava sul lato sud era troppo lontano per essere importante. Era solo, nessuno gli avrebbe dato fastidio, a meno che non fosse rimasto lì fino al sorgere dell’alba; in una notte simile, nemmeno un barbone avrebbe cercato di dormire su quelle panchine di legno. Era solo. Teneva le mani strette in mezzo alle ginocchia e aveva una giacca decisamente troppo leggera per quel calo improvviso di temperatura che aveva raffreddato l’aria e fatto gelare le foglie.

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