Charles Grant - La carezza della paura

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La carezza della paura: краткое содержание, описание и аннотация

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Quale sarà la prossima vittima dello squartatore, il mostro del New Jersey? Il timido Donald Boyd, capace di parlare solo con creature immaginarie di sua invenzione, assalito dal mostro, viene salvato da uno stallone nero che da allora lo difenderà sempre, apparendo dal nulla. Per Donald è la lotta contro una nuova inspiegabile ossessione.

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Era perfetto.

Poi il moccioso aveva girato la testa bruscamente e Tanker aveva volto lo sguardo verso il parco.

Ferro contro ferro.

Non ce n’era assolutamente motivo, ma quel suono lo terrorizzò, gli allentò le budella, gli fece salire qualcosa di acido dallo stomaco, e non poteva farci nulla — piagnucolò sottovoce e si coprì il viso con le mani. Rimase ad ascoltare. Cercò di rendersi invisibile. Ascoltò il moccioso che se ne andava e giurò a se stesso, freddo per il sudore, che non lo avrebbe seguito e non lo avrebbe preso.

Il rumore si fece più forte; Tanker si lasciò cadere a terra, mise le mani dietro la testa e aspettò, trattenendo il fiato e ascoltando qualsiasi cosa si muovesse davanti a lui, come se stesse seguendo il ragazzo.

E si fermò.

Il vento cessò: non si udiva il rumore del traffico, né quello dei passi.

Deglutì e girò la testa per sbirciare con un occhio. Attraverso gli arbusti vide pezzi di marciapiede, l’oscurità del lato opposto e nient’altro. Aggrottò le sopracciglia, perplesso. Appoggiò le mani sull’erba, per rialzarsi. Lentamente. Occhi giallognoli iniettati di sangue si mossero rapidamente da un lato all’altro, cercando di cogliere quanto più possibile del sentiero prima che la testa scrutasse più in alto, prima che le ginocchia si stringessero, prima che le braccia si tendessero in fuori alla ricerca di un equilibrio, pronte a balzare in avanti per combattere.

Ma non c’era nulla.

Il sentiero era vuoto, il moccioso se n’era andato, e quando arrivò al laghetto e controllò in entrambe le direzioni, si rese conto di essere solo.

Solo con quella tensione, e senza nessuno da uccidere.

Poi lo udì di nuovo.

Ferro contro ferro, una cadenza lenta e smorzata; e quando si girò di scatto per vedere di cosa si trattava, spalancò gli occhi e la bocca, senza riuscire a fermare lo scuotimento della testa.

Era solo.

Udì muoversi qualcosa di grande davanti a lui, ma era completamente solo.

Il vino, pensò; è colpa di quel dannato vino. Corse di nuovo verso gli alberi, andando a zig zag per allontanarsi da quel luogo, poi si diresse verso il muro a ovest. I polmoni gli facevano male e le mani tremavano; quando cercò di deglutire, gli parve di avere la gola piena di sassolini aguzzi. Rimase immobile, in ascolto, e si lasciò andare solo quando non udì altro che il vento.

Poi ritornò la tensione, di nuovo nella testa, nel petto. Una palpitazione profonda e solenne quando alzò la testa verso la luna.

Era giunta l’ora, non poteva più rimandare; scavalcò agilmente il muro, rimanendo nella zona oscura mentre correva verso destra. Le case affacciate sul parco erano grandi e ben illuminate, ma non riuscì a udire né la televisione, né la radio, né alcuna voce proveniente da quelle finestre aperte.

L’unica cosa che riusciva a sentire era il rumore che veniva dal parco e che lo spingeva verso quell’angolo, dove sbatté contro un palo del telefono; controllò la strada in entrambe le direzioni, ansimando leggermente e iniziando a piegare le dita e a corrugare la fronte.

Cinque minuti dopo Tanker lo vide.

Camminava sullo stesso lato della strada, schioccando le dita e dimenando i fianchi e i piedi. Tanker aggrottò le sopracciglia, pensando che il moccioso fosse ubriaco, poi vide la cuffia sulla testa e la radio appesa alla cintura.

Un bel modo di morire, pensò con una smorfia, girando dietro l’angolo del muro. Un bel modo di morire — sorridendo, ascoltando la tua musica preferita, ritornando a casa con un freddo pungente.

La sua risatina sotto i baffi risuonò come un ringhio.

Seguì i movimenti del ragazzo con attenzione: vide che tirava fuori le mani dalle tasche, per tamburellare con le dita contro il muro a tempo di musica, e poi lo vide agitare le dita ben in alto, sopra la testa.

Mentre faceva una seconda piroetta, Tanker gli fu accanto, sorridendo. Afferrò la gola del ragazzo e lo scaraventò senza il minimo sforzo dentro il parco. Prima che il ragazzo cadesse per terra, Tanker si inginocchiò di fianco a lui.

Prima che la canzone finisse, Tanker l’aveva squartato.

«Don il Barbaro vide gli gnomi cattivi alla fine della galleria della strega», bisbigliò muovendosi lentamente fuori dalla cucina, in posizione rannicchiata, con il braccio sinistro incrociato sul petto a mo’ di scudo e il braccio destro disteso per sorreggere il suo impaziente amico, il Corvo. «La vergine è incatenata a una roccia incandescente e soltanto Don ha la forza per rompere le catene magiche e salvarla da un destino ben peggiore della morte.» Lanciò un’occhiata a destra. «Corvo, com’è un destino ben peggiore della morte?» Il suo amico non rispose: quando inciampò nella frangia del tappeto, nell’ingresso, il telefono iniziò a suonare.

«Accidenti!» urlò, sobbalzando per il dolore. I suoi genitori erano sul retro, in quello che una volta era lo studio di suo padre e che fungeva ora da stanza della televisione. Su qualche canale c’era un incontro di boxe: distingueva la voce di suo padre che bestemmiava, mentre sua madre urlava al manager del pugile perdente che cosa avrebbe dovuto fare del pugile e della famiglia del pugile.

Nonostante il linguaggio, quei suoni erano piacevoli, suoni normali che non si udivano in quella casa da parecchie settimane. Stavano ridendo e scherzando insieme, ed era davvero una gran bella cosa; sperava che si decidessero riguardo a quello che provavano l’uno per l’altra.

D’altra parte, forse lo avevano già fatto. Forse avevano già preso una decisione e tutto sarebbe andato bene.

Il telefono continuò a squillare sul tavolino posto all’ingresso del salotto. Afferrò il ricevitore, strizzò l’occhio in segno di saluto al Corvo, che si accingeva a salvare la vergine dal suo atroce destino, poi si appoggiò allo stipite della porta.

Era Tracey. Aveva completamente dimenticato che doveva chiamarlo.

«Scusa se ti ho chiamato tardi», disse, con la voce soffocata, come se avesse messo una mano sul ricevitore.

«Non c’è problema. Tanto ero fuori per una passeggiata.»

«Oh, davvero? Con qualcuno che conosco?»

«No, ero solo.» Ma era contento che glielo avesse chiesto.

«Oh, solo soletto, eh? Non sei molto di compagnia, Boyd.»

«Non è per quello. Se proprio lo vuoi sapere, divento parecchio complicato quando ho una delle mie lune.»

Lei ridacchiò e lui guardò il soffitto con gli occhi chiusi.

«Come sta il tuo occhio?»

Si esaminò un lato della faccia. «È ancora al suo posto, almeno così credo.»

«Sei incazzato per la punizione.»

Cristo, pensò, le brutte notizie hanno le ali.

«Non me ne frega niente», disse. «Quest’anno i miei voti non sono stati un gran che. Userò quel tempo per studiare.»

«Risposta tipica da studente dell’ultimo anno», ribatté lei. «Sembri quasi soddisfatto, sai.»

Era soltanto depresso, pensò, ma si limitò a brontolare qualcosa.

«Senti, veterinario, ascoltami. Per domani sera.» Provò un senso di nausea; l’aveva capito dal tono della sua voce — stava per dirgli che aveva già un impegno con Brian. «Sì?»

«Non posso.»

Decise di tagliarsi la gola e che era meglio così, almeno non avrebbe dovuto trovarsi di fronte a Brian. Ma prima di tutto si sarebbe tagliato la gola.

«Mio padre ha il fine settimana libero e dobbiamo andare a trovare mia nonna a Long Island. Ha detto che partiremo subito dopo la scuola.»

«Ah, be’, d’accordo.»

«Ma ascolta, potremmo uscire venerdì prossimo, se a te va bene. Venerdì prossimo andrebbe benissimo. Voglio dire, sempre che tu ne abbia ancora voglia.»

Lui non disse nulla. La gola gli si ricucì, il soffitto andò a fuoco improvvisamente e lui la vide lassù, fluttuante, sorridente, con un ciuffo di capelli scuri sugli occhi.

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