Ci fu una pausa appena sottolineata dal rumore dell'acqua nella teiera.
«Ha mai sentito parlare del ballo in maschera annuale a Baia Azzurra, madame Sauvelle?»
«L'ultima luna piena di agosto. .» ricordò Simone.
«Già. Mi chiedevo. . Be', voglio che sappia che non deve sentirsi obbligata dalla mia richiesta, altrimenti non mi permetterei di rivolgergliela, cioè, non so se mi spiego. .»
Lazarus sembrava agitato come un liceale. Lei gli sorrise serena.
«Mi chiedevo se le farebbe piacere accompagnarmi quest'anno» concluse alla fine l'uomo.
Simone deglutì. Il sorriso di Lazarus si spense a poco a poco.
«Mi dispiace. Non avrei dovuto chiederglielo. Accetti le mie scuse. .»
«Con o senza zucchero?» lo interruppe amabilmente Simone.
«Prego?»
«Il tè. Con o senza zucchero?»
«Due cucchiaini.»
Simone annuì e versò lentamente i due cucchiaini di zucchero, poi porse la tazza a Lazarus e gli sorrise.
«Forse l'ho offesa. .»
«Non lo ha fatto. È che non sono abituata a ricevere inviti per uscire. Però mi piacerebbe venire con lei a quel ballo» rispose la donna, sorpresa della sua stessa decisione.
Il volto di Lazarus si illuminò in un ampio sorriso.
Per un istante Simone si sentì più giovane di Cent'anni. Era una sensazione ambigua, a metà tra il sublime e il ridicolo. Una sensazione pericolosamente inebriante. Una sensazione più forte del pudore, del riserbo o del rimorso. Aveva dimenticato quanto fosse confortante sentire che qualcuno s'interessava a lei.
Dieci minuti più tardi la conversazione continuava nella veranda della Casa del Capo. La brezza marina faceva oscillare le lampade a olio appese alle pareti.
Lazarus, seduto sulla ringhiera di legno, guardava le chiome degli alberi che si agitavano nel bosco, un mare nero e sussurrante.
Simone osservò il volto dell'inventore di giocattoli.
«Mi fa piacere sapere che vi trovate bene nella casa» disse Lazarus. «Come si stanno adattando i suoi figli alla vita a Baia Azzurra?»
«Non posso lamentarmi. Al contrario. In realtà, pare che Irene si sia incapricciata di un ragazzo del paese. Un certo Ismael. Lo conosce?»
«Ismael. . Sì, naturalmente. Un bravo ragazzo, a quanto ne so» disse Lazarus, distante.
«Lo spero. Comunque, sto ancora aspettando che me lo presenti.»
«I ragazzi sono così. Bisogna mettersi nei loro panni. .» suggerì Lazarus.
«Immagino di fare come tutte le madri: mi rendo ridicola proteggendo troppo mia figlia di quasi quindici anni.»
«È più che naturale.»
«Non so se lo pensa anche lei.»
Lazarus sorrise, ma non disse niente.
«Cosa sa di lui?» chiese Simone.
«Di Ismael? Be', poca roba. .» iniziò lui. «So che è un buon marinaio. Si dice che sia un giovane introverso e poco incline alle amicizie. Ma, a dire il vero, non sono molto informato sulle questioni locali. . Però non credo che debba preoccuparsi.»
Il suono delle voci si arrampicava fino alla sua finestra come la spirale di fumo di una sigaretta mal spenta, in maniera incostante e sinuosa; ignorarlo era impossibile. Il mormorio del mare copriva appena le parole di Lazarus e di sua madre giù in veranda, anche se, per un attimo, Dorian aveva desiderato che lo facesse, e che quella conversazione non fosse mai arrivata alle sue orecchie. C'era qualcosa che lo inquietava in ogni inflessione, in ogni frase. Qualcosa di indefinibile che sembrava impregnare ogni argomento della conversazione.
Forse era l'idea di sentir parlare tranquillamente sua madre con un uomo che non era suo padre, nonostante quest'uomo fosse Lazarus, che Dorian considerava un amico. Magari era quel colore di intimità che sembrava tingere le parole tra i due. Forse, si disse alla fine Dorian, era solo gelosia, e una stupida ostinazione nel pretendere che sua madre non potesse tornare a godere di una conversazione a tu per tu con un altro uomo adulto. E questo era egoista.
Egoista e ingiusto. Dopotutto Simone, oltre che sua madre, era una donna in carne e ossa, che aveva bisogno dell'amicizia e della compagnia di qualcun altro che non fossero i figli. Qualunque libro decente lo metteva bene in chiaro. Dorian riesaminò l'aspetto teorico del ragionamento. Su quel piano, tutto gli pareva perfetto. La pratica, però, era un altro paio di maniche.
Timidamente, senza accendere la luce della stanza, Dorian si avvicinò alla finestra e lanciò un'occhiata furtiva verso la veranda. "Egoista e, per di più, spia" sembrò sussurrargli una voce interiore. Dal comodo anonimato dell'oscurità, Dorian osservò l'ombra della madre proiettata sul pavimento della veranda.
Lazarus, in piedi, guardava il mare, nero e impenetrabile. Dorian deglutì. La brezza agitò le tende che lo nascondevano e fece istintivamente un passo indietro. La voce della madre pronunciò alcune parole incomprensibili. Non erano fatti suoi, concluse, vergognandosi di aver spiato in segreto.
Era sul punto di allontanarsi lentamente dalla finestra quando, con la coda dell'occhio, avvertì un movimento nella penombra. Dorian si voltò di scatto, sentendo i capelli drizzarglisi in testa. La stanza era immersa nell'oscurità, appena lacerata da scampoli di chiarore azzurrato che filtravano fra le tende ondeggianti. Con cautela, la mano tastò il comodino in cerca dell'interruttore della lampada. Il legno era freddo. Le dita tardarono un paio di secondi a trovarlo. Dorian premette l'interruttore. La spirale metallica della lampadina si illuminò di una luce fugace e si spense in un sospiro. Il luccichio vaporoso lo accecò per un istante, poi l'oscurità si fece più densa, come un pozzo profondo di acqua scura.
"La lampadina si è fusa" si disse. "Una cosa normale. Il metallo di cui è fatta la spirale della resistenza, il wolframio, ha una vita limitata." Glielo avevano spiegato a scuola.
Tutti questi pensieri tranquillizzanti svanirono quando Dorian avvertì di nuovo quel movimento nell'ombra. Più concretamente, dell'ombra.
Sentì un'ondata di freddo quando si accorse che una forma sembrava muoversi nel buio, davanti a lui.
La sagoma, nera e opaca, si fermò al centro della stanza. "Mi sta osservando" mormorò la voce nella sua mente. L'ombra parve avanzare nell'oscurità e Dorian si rese conto che non era il pavimento a muoversi, bensì le sue ginocchia, che tremavano di puro terrore dinanzi a quell'oscura forma spettrale che si avvicinava passo dopo passo.
Dorian retrocesse di qualche metro finché lo scarso chiarore che penetrava dalla finestra non lo avvolse in un alone di luce. L'ombra indugiò sulla soglia delle tenebre. Il ragazzo avvertì che i suoi denti erano sul punto di mettersi a battere, ma serrò la mascella con forza e represse la voglia di chiudere gli occhi. Di colpo, qualcuno sembrò pronunciare delle parole. Ci mise qualche secondo ad accorgersi che era lui stesso a parlare. In tono fermo e senza traccia di paura.
«Fuori di qui» mormorò Dorian rivolto alle ombre. «Ho detto fuori.»
Allora sentì un rumore spaventoso, un rumore che pareva l'eco di una risata lontana, crudele e malefica. In quell'istante le fattezze dell'ombra spuntarono dalla penombra come un miraggio di acque di ossidiana. Nere. Demoniache.
«Fuori di qui» si sentì dire Dorian.
La forma di vapore nero gli svanì sotto gli occhi e l'ombra attraversò la stanza a tutta velocità, come una nuvola di gas incandescente, fino alla porta. Una volta lì, la sagoma formò una spirale fantasmagorica che s'infilò nel buco della serratura, un tornado di tenebre risucchiato da una forza invisibile.
Soltanto allora la resistenza della lampadina si accese di nuovo, e una calda luminosità invase la stanza.
L'impatto improvviso della luce elettrica gli strappò un urlo di panico che gli si strozzò in gola. Gli occhi percorsero ogni angolo della camera, ma non c'era più traccia dell'apparizione che aveva creduto di vedere pochi attimi prima.
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