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George Martin: La luce morente

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George Martin La luce morente

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La storia di un pianeta che vive la sua ultima stagione di luce prima del buio intergalattico «Un vagabondo, un viaggiatore senza meta, una scoria della creazione: il pianeta Worlorn era tutte queste cose. Per innumerevoli secoli aveva continuato a cadere, da solo, senza scopo, precipitando tra i freddi e solitari spazi che si aprono fra le stelle. Ma lui non apparteneva a nessuna di quelle stelle. In un certo senso non faceva nemmeno parte della galassia, anche se rotolava attraverso il piano della galassia come un chiodo che attraversa la tonda superficie di un tavolo. Non faceva parte di niente...» Poi Worlorn passa vicino alla Ruota di Fuoco, la supercostellazione che gli darà qualche anno di luce prima che esso piombi di nuovo nella notte senza fine cui sono destinati i mondi senza sole. E nel momento in cui il pianeta solitario si avvicina, forse per l’ultima volta, al fuoco della vita, gli uomini decidono di trasformarlo per i loro fini riposti. La luce morente è una storia di superscienza, ma anche di esseri umani posti di fronte a un ennesimo simbolo dell’esistenza precaria che conduciamo, sul Margine dell’universo. É il primo romanzo di George R.R.Martin, un grande affresco spaziale del lontano futuro, dove tutto è azione, poesia, meraviglia.

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Dirk si fermò appena superata la porta, sorrise con l’aria più disinvolta che riuscì a trovare e lasciò cadere a terra l’unica leggera valigia che si era portato. «Ehi», disse piano. «Ho sentito che è in corso un festival».

Lei si voltò sentendo la sua voce e rise, con quella risata che lui aveva così ben conosciuto. «No», disse lei. «Sei in ritardo di quasi dieci anni».

Dirk strizzò gli occhi e scosse il capo. «Diavolo», disse. Poi sorrise ancora e lei gli venne vicino e si abbracciarono.

Quell’altro uomo, lo straniero, rimase lì in piedi a guardarli, senza dar segno di farci caso.

Fu un abbraccio breve. Dirk non aveva nemmeno avvolto le braccia intorno a lei che già Gwen gliele allontanava. Dopo essersi separati rimasero molto vicini e tutti e due si osservarono per constatare i danni che il tempo aveva loro arrecato.

Lei era più vecchia, ma era rimasta quasi la stessa, e le cose che lui ora trovava diverse erano probabilmente un difetto della sua memoria. I suoi grandi occhi verdi, ad esempio, non erano così grandi o così verdi come lui si ricordava e lei pareva un po’ più alta di quanto gli sembrasse e forse un po’ più appesantita. Ma ora lei era lì vicino; la donna sorrise allo stesso modo ed aveva gli stessi capelli di un tempo, fini e scuri, che le cadevano sulle spalle come una cascata scintillante più nera di una notte in un mondo esterno. Indossava un pullover bianco col collo a tartaruga e pantaloni con cintura di robusta tela camaleontina che ora era sbiadita nel colore nero della notte. Sul capo aveva una spessa fascia, così come già amava portare su Avalon. Ora aveva anche un braccialetto che un tempo non portava. Sarebbe stato più giusto chiamarlo avambraccialetto. Era un oggetto massiccio di freddo argento in cui era stata incastonata della giada che le copriva tutto l’avambraccio sinistro. La manica del pullover era stata arrotolata in su, allo scopo di farlo notare.

«Sei dimagrito, Dirk», disse lei.

Dirk si strinse nelle spalle ed infilò le mani nelle tasche della giacca. «Sì», disse lui. Per la verità era quasi emaciato, anche se le spalle erano un po’ curve per la sua abitudine di camminare ingobbito. Gli anni lo avevano invecchiato e non lo avevano risparmiato; i suoi capelli ora erano più grigi che castani, mentre un tempo era stato ben diverso e lui li portava quasi lunghi come quelli di Gwen, ma i suoi erano una massa di riccioli e di onde.

«Tanto tempo», disse Gwen.

«Sette anni standard», rispose lui scuotendo il capo. «Non pensavo che…».

L’altro uomo, lo straniero in attesa, allora tossicchiò, come se volesse ricordar loro che non erano soli. Dirk alzò gli occhi e Gwen si voltò. L’uomo si avvicinò e si chinò con deferenza. Piccolo, paffuto e biondissimo — aveva i capelli che sembravano quasi bianchi — indossava un abito di seta dai colori smaglianti, verde giallo ed un piccolo cappello nero lavorato a maglia che rimase fermamente al suo posto malgrado il profondo inchino.

«Arkin Ruark», disse a Dirk.

«Dirk t’Larien».

«Arkin lavora con me al progetto», disse Gwen.

«Progetto?».

Lei batté gli occhi. «Non sai nemmeno perché io sono qui?».

Non lo sapeva. La gemma mormorante era stata mandata da Worlorn, così lui non sapeva altro se non dove poterla trovare. «Tu sei un’ecologa», disse Dirk. «Su Avalon…».

«Sì. All’Istituto. Tanto tempo fa. Ho finito con quel posto, ho ritirato le mie credenziali e mi sono trasferita su Alto Kavalaan. Finché non sono stata mandata qui».

«Gwen è con l’Unione Ferrogiada», disse Ruark. Aveva atteggiato il viso ad un sorriso sottile e tirato. «Io rappresento l’Accademia di Città Impril. La conosce?».

Dirk annuì. Allora Ruark era un Kimdissi, un abitante dei mondi esterni, proveniente da una delle loro università.

«Impril e Ferrogiada, be’ quasi la stessa cosa, sa? Ricerche sull’interazione ecologica di Worlorn. Non sono mai state fatte a dovere durante il periodo del festival, dato che i mondi esterni non erano granché preparati sui problemi ecologici, nessuno. Una scienza dimenticata nel di, come si dice presso gli Emereli. Ecco in cosa consiste il progetto. Gwen ed io ci conoscevamo già da prima, così ci siamo detti, bene siamo qui per la stessa ragione, allora sarà meglio lavorare insieme ed apprendere tutto ciò che c’è da apprendere».

«Mi pare giusto», disse Dirk. Per il momento il progetto non lo interessava più che tanto; avrebbe voluto poter parlare con Gwen. La guardò. «Mi dirai tutto più tardi. Quando parleremo. Suppongo che tu mi voglia dire qualcosa».

Gwen lo guardò in modo strano. «Sì, naturalmente. Dobbiamo parlare di un sacco di cose».

Dirk raccolse la sua valigia. «Dove si va?» chiese. «Vorrei fare un bagno e mangiare qualcosa».

Gwen scambiò uno sguardo con Ruark. «Arkin ed io stavamo appunto parlando di questo. Ti sistemerà lui. Stiamo nella stessa casa. Solo a qualche piano di distanza».

Ruark annuì. «Ben lieto, ben lieto. È un piacere aiutare gli amici ed entrambi siamo amici di Gwen, non le pare?».

«Ah», disse Dirk. «Però pensavo che avrei potuto stare con te, Gwen».

Lei non fu in grado di guardarlo per qualche istante. Guardava Ruark, poi guardò per terra, il nero cielo notturno, quindi fissò lo sguardo su di lui. «Forse», disse, senza più sorridere adesso, con tono di voce misurato. «Ma non subito. Non penso che sarebbe la cosa migliore. Ma andremo a casa. Abbiamo l’auto».

«Da questa parte», intervenne Ruark, prima che Dirk potesse dire una parola. C’era qualcosa di molto strano. Si era immaginato il loro incontro per centinaia di volte a bordo del Tremito durante i lunghi mesi di viaggio ed a volte lo aveva immaginato tenero ed appassionato, a volte era stato un confronto iroso e spesso era stato commovente… ma non era mai stata una cosa come questa, goffa e spigolosa, con un estraneo sempre presente durante il colloquio. Cominciava a chiedersi chi fosse esattamente Arkin Ruark e se i suoi rapporti con Gwen fossero proprio quelli che loro avevano detto. Del resto, non avevano quasi detto niente. Non sapeva che cosa dire o pensare, perciò si strinse nelle spalle e li seguì verso la loro aerauto.

Camminarono ben poco. Quando Dirk vide l’auto ne fu molto sorpreso. Aveva visto un mucchio di aerauto durante i suoi viaggi, ma nessuna come questa; gigantesca e grigia come il ferro, con ali triangolari e curve che parevano muscoli. Pareva una cosa viva, come una grande manta aerea costruita di metallo. Tra le ali era stata ricavata una piccola cabina con quattro posti e sotto la punta delle ali si vedevano luccicare delle barre dall’aspetto sinistro.

Dirk fissò Gwen e indicò gli apparati. «Non sono laser?».

La donna annuì, sorridendo appena un po’.

«Cosa accidenti è?», chiese Dirk. «Si direbbe una macchina da guerra. C’è pericolo di essere assaliti dagli Hrangani? Non ho più visto una cosa del genere dalla mia ultima visita ai musei di Avalon».

Gwen rise, gli prese la valigia e la gettò sul sedile posteriore. «Sali, su», gli disse. «Si tratta di un’aerauto perfettamente funzionante costruita su Alto Kavalaan. È solo da poco che hanno cominciato a costruirle. È fatta in modo che abbia l’aspetto di un animale, la banscea nera. Si tratta di un predatore volante che viene considerato l’animale fratello dell’Unione di Ferrogiada. Ha un posto importante nelle loro tradizioni, quasi un simbolo totemico».

Gwen salì a bordo e si pose dietro alla barra di guida e Ruark la seguì un po’ goffamente, scavalcando un’ala per passare dietro. Dirk non si mosse. «Ma ha i laser !», insistette.

Gwen sospirò. «Non sono collegati e non lo sono mai stati. Tutte le auto costruite su Alto Kavalaan hanno delle armi di un qualche tipo. La loro cultura lo richiede. E non solo la cultura dei Ferrogiada, ma anche quella dei Rossacciaio, dei Braith e della Fortezza di Scianagate».

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