«Ce l’abbiamo fatta?» domandò con entusiasmo il gesuita. «Siamo su Hyperion? Non mi pare di riconoscerlo, ma a quel tempo vidi solo alcune zone del continente settentrionale e da allora sono trascorsi più di undici anni. È proprio Hyperion? La gravità sembra quella che ricordo. L’aria è… più dolce.»
Per qualche istante lasciai che gli occhi si abituassero alla notte. «Siamo proprio su Hyperion» dissi poi. «Vede le costellazioni? Quella là è il Cigno. Laggiù ci sono i Gemelli. Quell’altra in realtà si chiama Acquario, ma nonna diceva a noi bambini che era il Carro di Raul, dal carretto che mi tiravo sempre dietro.» Inspirai a fondo e guardai di nuovo la pianura ondulata. «Questo era uno dei nostri punti di accampamento preferiti» continuai. «Della nostra carovana di nomadi. Quando ero bambino.» Piegai il ginocchio per esaminare il terreno, alla scarsa luce delle stelle. «Stessi segni di pneumatici. Vecchi di qualche settimana. Le carovane passano ancora da queste parti, immagino.»
Con un fruscio di tonaca nell’erba, de Soya andava avanti e indietro, agitato come un predatore notturno in gabbia. «A che distanza siamo?» domandò. «Possiamo raggiungere a piedi la residenza di Martin Sileno?»
«Circa quattrocento chilometri. Ci troviamo nella parte orientale della brughiera, a sud del Becco. Zio Martin sta nelle alture pedemontane dell’altopiano punta d’Ala.» Dentro di me, trasalii: per indicare il vecchio poeta avevo usato l’affettuoso nomignolo tipico di Aenea.
«Stia dove vuole» disse con impazienza padre de Soya. «Da quale parte andiamo?»
Era pronto a iniziare la camminata, ma lo fermai, mettendogli di nuovo la mano sulla spalla. «Non credo sia necessario andare a piedi» dissi piano. Qualcosa nascondeva le stelle a sudest: malgrado il sibilo del vento, udivo il ronzio acuto di turboventilatori. Qualche secondo dopo, scorgemmo le palpitanti luci di navigazione, rossa e verde, di uno skimmer che girava a nord sulla prateria e oscurava il Cigno.
«Buon segno?» domandò de Soya. Sentii che si irrigidiva un poco.
Scrollai le spalle. «Quando vivevo qui, non sarebbe stato buon segno» risposi. «Quasi tutti gli skimmer appartenevano alla Pax. Al servizio di sicurezza della Pax, per essere esatti.»
Aspettammo ancora solo qualche secondo. Lo skimmer atterrò, il ronzio delle turbine si affievolì e cessò, la bolla anteriore di sinistra girò sui cardini e si aprì. Ne uscì un fiotto di luce. Vidi la pelle azzurra, gli occhi azzurri, il moncherino del braccio sinistro, la destra alzata in segno di saluto.
«Buon segno» dissi.
«Come sta?» domandai ad A. Bettik, mentre volavamo in direzione sudest, a trecento metri di quota. Dallo schiarirsi dell’orizzonte sopra l’altopiano punta d’Ala calcolai che mancasse un’ora all’alba.
«Sta per morire» rispose l’androide. Per un poco, allora, volammo in silenzio.
A. Bettik mi era sembrato contento di rivedermi, anche se, quando l’avevo abbracciato, aveva mostrato un certo impaccio. Gli androidi non erano mai a loro agio per simili manifestazioni emotive nei loro riguardi da parte degli esseri umani per il cui servizio erano stati biocostruiti. Nel breve tempo del volo, gli rivolsi quante più domande potevo.
Mi espresse subito il suo cordoglio per la morte di Aenea e questo mi diede l’opportunità di rivolgergli la domanda che più mi tormentava: «Hai sentito il Momento Condiviso?».
«Non esattamente, signor Endymion» rispose A. Bettik, cosa che non mi chiarì nulla. Ma poi A. Bettik ci aggiornò sugli ultimi tredici mesi standard su Hyperion.
Martin Sileno era stato, come Aenea già sapeva, il trasponder relè del Momento Condiviso. Tutti, sul mio pianeta natale, l’avevano sentito. Per la maggior parte, cristiani rinati e militari della Pax avevano disertato immediatamente, avevano cercato la comunione per liberarsi del parassita crucimorfo ed evitato i pochi lealisti della Pax. Zio Martin aveva messo a disposizione il vino e il sangue, l’uno e l’altro dalla sua provvista personale. Da tempo ammassava il vino e conservava decilitri del proprio sangue, fin dal tempo della sua comunione con la decenne Aenea, duecentocinquant’anni prima.
I pochi lealisti della Pax erano fuggiti nelle tre astronavi rimaste e la città da loro occupata per ultima, Port Romance, era stata liberata quattro mesi dopo il Momento. Dal suo ininterrotto ritiro nella città universitaria di Endymion, zio Martin aveva cominciato a trasmettere vecchi ologrammi di Aenea, una Aenea giovanissima come non l’avevo mai conosciuta, che spiegava come usare il nuovo accesso al Vuoto che lega e lanciava appelli contro la violenza. I milioni di indigeni e di ex fedeli della Pax, che cominciavano a scoprire la voce dei propri morti e il linguaggio dei vivi, non contravvennero ai suoi desideri.
A. Bettik mi disse pure che adesso in orbita c’era solo una gigantesca nave-albero dei templari, la Sequoia sempervirens, comandata dalla Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen, con a bordo parecchi nostri amici, compresi Rachel, Theo, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, gli Ouster Navson Hamnim e Sian Quintana Ka’an. Anche George Tsarong e Jigme Norbu erano sulla nave. Rosteen aveva chiesto al vecchio poeta il permesso di atterrare per due giorni, disse A. Bettik, ma Sileno aveva rifiutato: non voleva vedere né loro né altri, finché non fossi arrivato io.
«Io?» ripetei, sorpreso. «Martin Sileno sapeva che sarei arrivato?»
«Naturalmente» rispose A. Bettik e non aggiunse spiegazioni.
«Come hanno fatto, Rachel e la Dorje Phamo e gli altri, a salire sulla nave-albero?» domandai. «La Sequoia sempervirens ha fatto tappa sul mondo di Barnard e su Vitus-Gray-Balianus B e gli altri sistemi per raccoglierli?»
«Per quanto mi risulta, signor Endymion, gli Ouster hanno viaggiato sulla nave-albero e sono arrivati da ciò che resta della biosfera Albero Stella da noi visitata. Gli altri, come mi è dato di capire dalle sempre più frustrate trasmissioni radio del signor Rosteen al signor Sileno, si sono teleportati sulla nave, proprio come lei si è teleportato qui da noi.»
Mi drizzai a sedere. Era una novità sorprendente. Per non so quale ragione, avevo ritenuto di essere l’unico tanto intelligente, tanto benedetto o tanto quel che vi pare ad avere imparato il trucco per teleportarsi. Ora scoprivo che Rachel e Theo e l’anziana badessa avevano fatto come me, e il giovane Dalai Lama… Be’, un Dalai Lama, non c’era da stupirsi, e Rachel e Theo erano stati i primi discepoli di Aenea, ma George e Jigme? Mi sentii un po’ ridimensionato, lo ammetto, ma anche entusiasta per la notizia. Migliaia di altri, forse per primi quelli che Aenea aveva conosciuto e toccato e ammaestrato di persona, erano sul punto di compiere il primo passo. E poi… La mente mi vacillò al pensiero di tutti quei miliardi di persone che viaggiavano liberamente dovunque desiderassero.
Mentre il cielo a est dei picchi si schiariva rapidamente, atterrammo nella città abbandonata. Saltai giù dallo skimmer, tenendo contro il fianco il grafer, e per l’impazienza di vedere Martin Sileno salii di corsa i gradini della torre, lasciando indietro l’androide e il prete. Il vecchio poeta sarà felice di vedermi, mi dissi, e mi sarà grato per l’impegno nel soddisfare tutte le sue impossibili richieste — avevo salvato Aenea dalla prima imboscata della Pax nella valle delle Tombe del Tempo, poi collaborato a distruggere la Pax, a rovesciare la corrotta Chiesa, a fermare lo Shrike in modo che non facesse male a Aenea o non assalisse la specie umana — proprio come lui aveva chiesto, quell’ultima sera di sbronza insieme, più di dieci anni standard fa. Doveva essere di sicuro felice e riconoscente.
«Ci hai messo un fottuto mucchio di tempo per portare qui quel tuo culo scansafatiche» disse la mummia avvolta nella rete di tubi e cavetti di supporto vita. «Credevo di dovere venire a prenderti e trascinarti qui da dove te ne stavi a poltrire come una fottuta checca col sussidio del governo del XXI secolo.»
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