Dan Simmons - Il risveglio di Endymion

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Il risveglio di Endymion: краткое содержание, описание и аннотация

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L’inquisizione è tornata a colpire. Nell’anno del Signore 3131, la Chiesa, garante dell’immortalità fisica a tutti i suoi fedeli, ingaggia una crociata contro gli Ouster, indomiti mutanti di origine umana. E lancia nello spazio una spietata caccia a Aenea — la fanciulla ritenuta il nuovo messia — per carpire il segreto della sua forza misteriosa. Mentre Endymion è custodito nella cella della morte, la ribellione dei giusti sta per giungere al suo atto finale: tutto ruota intorno a Aenea, dotata di grandi poteri e portatrice di oscure verità… Dopo «Hyperion», «La caduta di Hyperion» ed «Endymion», Dan Simmons tocca con questo romanzo l’apice della forza visionaria e immaginativa. E conclude una delle più celebrate, irresistibili e sensazionali saghe fantascientifiche del nostro tempo.

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L’emaciata creatura nel letto a cuscino d’aria sospeso al centro di tutte quelle apparecchiature, monitor, respiratori e infermiere androidi non aveva l’aspetto dell’anziano signore ringiovanito dal trattamento Poulsen che avevo salutato tempo fa, quasi dieci dei miei anni e solo due di veglia dei suoi. Quello era un cadavere che avevano trascurato di seppellire. Anche la voce era una ricostruzione elettronica dei suoi ansiti e rantoli subvocalizzati.

«Hai finito di tenere spalancata quella fottuta bocca o vuoi comprare un altro biglietto per il baraccone dei fenomeni?» disse il sintetizzatore vocale posto sopra la testa della mummia.

«Mi scusi» borbottai, sentendomi come un bambino screanzato sorpreso a fissare spudoratamente.

«Con le scuse mi ci pulisco il culo» disse il vecchio poeta. «Ti decidi a fare rapporto o te ne stai solo lì come il fottuto bifolco che sei?»

«Rapporto?» dissi, allargando le mani e posando su un tavolino il grafer. «Credo che conosca già le cose essenziali.»

«Essenziali?» ruggì il sintetizzatore, interpretando il torrente di colpi di tosse e di rantoli. «Che cazzo ne sai tu delle cose essenziali, bamboccio?» Le infermiere androidi si erano frettolosamente allontanate.

Provai uno scatto d’ira. Forse l’età aveva imputridito il cervello del vecchio bastardo, non solo le sue buone maniere, se mai le aveva avute. Dopo un minuto di silenzio rotto solo dal raspio dei mantici meccanici sotto il letto sospeso, mantici che pompavano l’aria dentro e fuori degli inutili polmoni del moribondo, dissi: «Rapporto. D’accordo. Le sue richieste sono state in gran parte soddisfatte, signor Sileno. Aenea ha messo fine al dominio della Pax e della Chiesa. Lo Shrike pare sia scomparso. L’universo umano è cambiato per sempre».

«L’universo umano è cambiato per sempre» mi prese in giro il vecchio poeta, usando il sintetizzatore in un tentativo di falsetto sarcastico. «Cazzo, ho forse chiesto a te, o alla ragazza, di cambiare per sempre il fottuto universo, merdaccia boia?»

Ripensai alla nostra conversazione, proprio lì, una decina di anni prima. «No» ammisi infine.

«Ah, ci siamo» ringhiò il vecchio poeta. «Le tue cellule cerebrali ricominciano a dare segni di vita. Cristo, ragazzo, penso che quella scatola per figliate di gatti di Schrödinger ti abbia fatto diventare anche più stupido di prima.»

Rimasi in silenzio ad aspettare. Se avessi aspettato abbastanza, forse il vecchio poeta sarebbe morto senza tante storie.

«Cosa ti ho chiesto di fare, prima della tua partenza, eh, ragazzo prodigio?» Il tono era quello di un maestro infuriato con l’alunno.

Cercai di ricordare altri particolari che non fossero la distruzione del ferreo dominio della Pax e il rovesciamento di una Chiesa che dominava centinaia di pianeti. Lo Shrike… be’, non si riferiva a quello. Alla fine, toccando il Vuoto che lega anziché affidarmi alla mia fallibile memoria, ricuperai le sue ultime parole, prima della mia partenza sul tappeto Hawking incontro alla bambina.

"Vai pure" aveva detto il vecchio poeta. "Porta a Aenea il mio amore. Dille che zio Martin aspetta di vedere la Vecchia Terra, prima di morire. Dille che il vecchiaccio è ansioso di sentirle spiegare il senso di ogni moto, forma, suono." L’essenza delle cose.

«Oh» dissi. «Mi spiace che Aenea non sia qui per parlare con lei.»

«Spiace anche a me, ragazzo» mormorò il vecchio, con la propria voce. «Spiace anche a me. E lascia perdere quel thermos di ceneri nella borsa del prete. Non mi riferivo a quelle, quando ho detto di voler rivedere mia nipote, prima di morire.»

Potei solo muovere la testa in un cenno di assenso: sentivo il dolore nella gola e nel petto.

«E il resto?» riprese il vecchio poeta. «Ti decidi a portare a termine la mia ultima richiesta o ti limiti a lasciarmi morire, mentre te ne stai lì in piedi, col tuo grosso pollice di discepolo su per il tuo stupido culo?»

«Ultima richiesta?» ripetei. In presenza di Martin Sileno, il mio quoziente d’intelligenza pareva scendere di colpo di cinquanta punti.

La voce sintetizzata sospirò. «Dammi quel tuo stilo grafer, se vuoi che te lo metta a grosse lettere in neretto, ragazzo. Prima di schiattare voglio vedere la Vecchia Terra. Voglio tornarci. Voglio tornare a casa.»

Alla fine decidemmo di non spostarlo dalla torre. I medici androidi conferirono con i medici Ouster che finalmente avevano avuto il permesso di atterrare e questi conferirono con il robochirurgo a bordo della nave del console (parcheggiata proprio dietro la torre, esattamente dove A. Bettik l’aveva fatta scendere circa due mesi prima, dopo avere pagato il debito temporale per la traslazione dal sistema di Pacem) che conferì elettronicamente con i monitor medici che circondavano il poeta, come faceva di continuo, e il verdetto rimase sempre uguale. Spostandolo dalla torre e sottoponendolo anche a un minimo cambiamento di gravità o di pressione per trasportarlo nella nave del console o nella nave-albero, lo avremmo quasi sicuramente ucciso.

Così portammo via l’intera torre e, con essa, una buona fetta di Endymion.

Ket Rosteen e gli Ouster si occuparono dei particolari, portando giù dalla gigantesca nave-albero una decina di erg. Calcolai in seguito che in quella splendida alba di Hyperion circa dieci ettari si alzarono in aria, compresi la torre, la nave del console, i pulsanti cubi di Moebius che avevano trasportato gli erg, lo skimmer, la cucina e la lavanderia annessi alla torre, parte del vecchio istituto di chimica nel campus di Endymion, diversi edifici di pietra, la metà esatta del ponte sul fiume Punta d’Ala e alcuni milioni di tonnellate di roccia e di sottosuolo. Nemmeno ci accorgemmo del decollo: gli erg e i loro aiutanti Ouster e templari manovrarono con tale perfezione i campi di contenimento e di sollevamento che non avremmo notato la minima differenza, se sopra la nostra testa il cielo del mattino non fosse divenuto un immobile campo di stelle nell’apertura circolare della torre e gli ologrammi nella sala di cura non avessero mostrato i nostri progressi. In quella sala, con le stelle che ardevano sopra di noi, A. Bettik, padre de Soya, alcune infermiere androidi e io guardammo gli ologrammi in diretta, mentre io tenevo la mano del vecchio poeta.

Endymion, la più antica città del nostro pianeta e origine del nome della mia famiglia, scivolò silenziosamente nell’alba e nell’atmosfera, per farsi afferrare dai dieci chilometri di nave-albero in nostra attesa in orbita alta. La Sequoia sempervirens aveva schiuso i propri rami per formare un perfetto alloggiamento per noi, tanto che potevamo passare dal suolo di Hyperion ai grandi ponti e ai rami e alle passerelle della nave senza avvertire transizione. Poi la nave-albero si girò verso le stelle.

«Ora tocca a te, Raul» disse la Dorje Phamo. «Il signor Sileno non sopravviverebbe alla traslazione Hawking o alla crio-fuga o al debito temporale.»

«Questa è una nave-albero maledettamente grande» dissi. «A bordo c’è un mucchio di macchinari e di persone. Mi aiuterete, spero!»

«Certo» disse la Dorje Phamo.

«Sì» dissero il Dalai Lama e George e Jigme.

«Ti aiuteremo» disse Rachel, ferma accanto a Theo. Le due donne parevano invecchiate.

«Proveremo anche noi» disse padre de Soya, parlando anche per Ket Rosteen e gli altri radunati nei pressi.

In alto sul ponte della nave, mentre alcune centinaia di metri più in basso l’androide A. Bettik si prendeva cura del suo ex padrone, la Dorje Phamo, Rachel, Theo, il Dalai Lama, George, Jigme, padre de Soya, il capitano templare e gli altri si tennero tutti per mano. Io completai il cerchio. Chiudemmo gli occhi e ascoltammo le stelle.

Mi ero aspettato che il fiume di stelle che era la Piccola Nube di Magellano fosse sospeso sopra la nave-albero; ma quando emergemmo dal lampo luminoso fu subito ovvio che ci trovavamo ancora nel nostro braccio della Via Lattea, a non molti anni luce dal sistema di Hyperion, a dar retta alle ben note costellazioni. Da qualche parte eravamo andati, certo. Ma il pianeta che brillava sopra i rami non mostrava il blu del mare e il bianco delle nuvole della Vecchia Terra o anche di un pianeta di tipo terrestre: era un mondo rosso e desertico, privo di oceani, con sparse pustole di crateri provocati da vulcani o da impatti di meteoriti e una luccicante e candida calotta polare.

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