Dan Simmons - Il risveglio di Endymion

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Il risveglio di Endymion: краткое содержание, описание и аннотация

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L’inquisizione è tornata a colpire. Nell’anno del Signore 3131, la Chiesa, garante dell’immortalità fisica a tutti i suoi fedeli, ingaggia una crociata contro gli Ouster, indomiti mutanti di origine umana. E lancia nello spazio una spietata caccia a Aenea — la fanciulla ritenuta il nuovo messia — per carpire il segreto della sua forza misteriosa. Mentre Endymion è custodito nella cella della morte, la ribellione dei giusti sta per giungere al suo atto finale: tutto ruota intorno a Aenea, dotata di grandi poteri e portatrice di oscure verità… Dopo «Hyperion», «La caduta di Hyperion» ed «Endymion», Dan Simmons tocca con questo romanzo l’apice della forza visionaria e immaginativa. E conclude una delle più celebrate, irresistibili e sensazionali saghe fantascientifiche del nostro tempo.

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«Marte» disse A. Bettik. «Siamo tornati al sistema della Vecchia Terra, intorno alla stella chiamata Sole.»

Tutti noi udimmo nel Vuoto che lega la risonanza della voce di Fedmahn Kassad su quel pianeta. Ci teleportammo giù, trovammo Kassad, gli spiegammo il motivo del viaggio — non aveva bisogno di spiegazioni: ascoltando le voci ci aveva sentiti arrivare — e lo portammo con noi sulla Sequoia sempervirens. Martin Sileno ci avvisò di voler parlare al suo vecchio compagno di pellegrinaggio e io accompagnai il colonnello su per scale e ponti, fino alla torre.

«Il sistema della Vecchia Terra è sicuro, come mi aveva ordinato Colei che insegna» disse Kassad, quando mettemmo piede sul suolo di Hyperion, nel punto dove il frammento di città si annidava tra i rami della nave-albero. «Ormai da dieci mesi nessuna nave della Pax ha messo alla prova le nostre difese. All’interno del sistema solare nessuno, nemmeno le nostre navi da guerra, ha il permesso di avvicinarsi alla Vecchia Terra a meno di venti milioni di chilometri.»

«La Vecchia Terra?» ripetei, sorpreso. Mi fermai di colpo. Kassad si fermò e girò verso di me il suo viso magro e scuro.

«Non la riconosci?» disse. Indicò in alto, nella direzione in cui la nave-albero accelerava a pieno regime sotto la spinta uniforme degli erg.

Aveva l’aspetto di una stella doppia, come tutti i pianeti con un solo grande satellite. Ma potevo vedere il pallido splendore della Luna, più piccola, più fredda. E il bianco e azzurro pulsare di vita che era la Vecchia Terra.

A. Bettik si unì a noi all’entrata della torre. «Quando è stata… quando l’hanno… come… quand’è tornata?» dissi, senza staccare gli occhi dalla Vecchia Terra che intanto, avvicinandoci, era diventata una vera sfera.

«Nell’ora del Momento Condiviso» disse Kassad. Si lisciò l’uniforme nera per eliminare tracce di sabbia rossa e si preparò a presentarsi al vecchio poeta.

«E tutti lo sanno?» Povero stupido Raul Endymion! Sempre l’ultimo a sapere le cose.

«Ora lo sanno» disse il colonnello Fedmahn Kassad.

Salimmo la scala della torre, dal vecchio poeta morente.

Martin Sileno era di buon umore, incontrando il suo vecchio amico dopo quasi duecentottant’anni di separazione.

«Così la tua nera anima assassina diventerà il cristallo seme, quando costruiranno lo Shrike, da qui a un millennio, eh?» ridacchiò il vecchio poeta, per mezzo del sintetizzatore vocale. «Bene, una carrettata di merdosi grazie, Kassad.»

Il colonnello guardò con aria pensierosa quella mummia ghignante. «Come mai non sei già morto, Martin?» disse infine.

«Lo sono, lo sono» replicò Sileno, tossendo. «Ho smesso di respirare secoli e millenni fa. Solo, non sono stati tanto furbi da spingermi giù e seppellirmi.» Il sintetizzatore non cercò di articolare i versi soffocati e i rantoli che seguirono.

«Sei riuscito a terminare quel tuo inutile poema in prosa?» domandò il colonnello, mentre il vecchio poeta continuava a tossire, facendo tremare la rete di tubicini e di cavetti.

«No» dissi io, parlando per la figura scossa dalla tosse sul letto. «Non avrebbe potuto terminarlo.»

«Sì» disse chiaramente Martin Sileno, mediante il laringofono. «L’ho terminato.»

Restai in silenzio.

«A dire il vero» ridacchiò il poeta «lui l’ha finito per me.» Il suo braccio ossuto, rivestito di pelle simile a pergamena, si alzò un poco dal letto. Il pollice, storto dall’artrite, si mosse nella mia direzione.

Il colonnello Kassad mi lanciò un’occhiata. Scossi la testa.

«Sei proprio fottutamente ottuso, ragazzo» disse Martin Sileno, in quello che l’altoparlante tradusse come tono affettuoso. «Vedi il tuo grafer da qualche parte?»

Mi girai di scatto e guardai il tavolino accanto al letto, dove avevo lasciato il grafer. Non c’era più.

«Tutto stampato» gracchiò Sileno. «Ho tagliato circa un miliardo di ricordi superflui. L’ho mandato nella sfera dati, prima della partenza.»

«Non esiste sfera dati» dissi.

A furia di ridere Martin Sileno si procurò un accesso di tosse. Alla fine il sintetizzatore tradusse alcuni colpi, di tosse con: «Non sei solo stupido, ragazzo. Sei irrecuperabile. Cosa credi che sia il Vuoto? È la maledetta sfera dati del maledetto universo, ragazzo. La ascoltavo da secoli, prima che la bambina mi desse la comunione per ascoltarla con i bachi nanotec che circolano dentro di me. È questo, ragazzo, ciò che fanno gli scrittori, gli artisti, i creatori. Ascoltano il Vuoto e cercano di udire i pensieri dei morti. Sentire il loro dolore. Il dolore dei vivi, anche. Trovare una musa è solo il modo di un artista o di un sant’uomo per mettere un piede nella porta principale del Vuoto che lega. Aenea lo sapeva. Avresti dovuto saperlo anche tu».

«Non aveva alcun diritto di trasmettere la mia narrazione» dissi. «È mia. L’ho scritta io. Non fa parte dei suoi Canti. » Se avessi saputo con certezza quale dei tubicini collegati a lui era quello dell’ossigeno, l’avrei pestato e non avrei tolto il piede finché non fossero terminati i suoi rantoli.

«Stronzate, ragazzo» disse Martin Sileno. «Perché credi che ti abbia mandato a fare questi undici anni di vacanza?»

«Per salvare Aenea» risposi.

Il vecchio poeta ridacchiò e tossì. «Lei non aveva bisogno d’essere salvata, Raul. Maledizione, da come ho visto io, man mano che accadeva, è stata quasi sempre lei a tirare via dal fuoco il tuo inutile culo. Anche quando a fare il salvataggio era lo Shrike, solo perché quella ragazza-bambina l’aveva addomesticato un poco.» I bianchi occhi della mummia, con gli occhiali videocamera, si girarono verso il colonnello Kassad. «Ha addomesticato te, intendo dire, passata e futura macchina per uccidere.»

Mi scostai dal letto e toccai uno dei biomonitor per riprendermi. In alto, nell’ampio cerchio del soffitto aperto della torre, la Vecchia Terra divenne più grande e rotonda. La voce di Martin Sileno mi richiamò, quasi sfottendomi.

«Ma non li hai ancora terminati, ragazzo. I Canti non sono ancora completi.»

Lo fissai freddamente da quei pochi metri di distanza. «Cosa vorrebbe dire, vecchio?»

«Devi portarmi giù, così possiamo terminarli, Raul. Insieme.»

Non potevamo teleportarci sulla Vecchia Terra perché laggiù non c’era nessuno che potessi usare come faro di riferimento, così decidemmo di usare gli erg e far atterrare l’intero pezzo di città. La manovra poteva risultare fatale a Martin Sileno, ma il vecchio poeta ci aveva urlato di piantarla con i casini per l’amor di Dio e di procedere, così procedemmo. La Sequoia semperoirens si era tenuta in orbita bassa intorno alla Vecchia Terra, o semplicemente Terra, come Martin Sileno pretese che la chiamassimo, per parecchie ore. I sistemi ottici, radar e sensori della nave-albero avevano mostrato un pianeta privo di vita umana, ma ricco di animali, uccelli, pesci e piante, senza traccia di inquinamento nell’atmosfera. Avevo progettato di atterrare a Taliesin West, ma i telescopi mostrarono che gli edifici erano scomparsi. Restava solo il deserto, probabilmente così com’era negli ultimi giorni prima della teorica caduta della Terra nel buco nero causato dal Grande Errore del ’38. La Roma dove era tornato il secondo cìbrido John Keats era scomparsa. Tutte le città e gli edifici che avevo ritenuto ricostruzioni sperimentali dei Leoni e Tigri e Orsi erano scomparsi. La Terra era stata ripulita di città e di autostrade e di ogni traccia dell’uomo. Pulsava di vita e di buona salute, come se aspettasse il nostro ritorno.

Fermo nei pressi della nave del console, su suolo di Hyperion, nella città racchiusa nella nave-albero, circondato da vecchi amici di Aenea, discutevo del viaggio sulla Terra e intanto mi domandavo chi avrebbe avuto voglia di scendere sul pianeta e chi avrebbe dovuto accompagnarci, pensando per tutto il tempo solo al piccolo contenitore metallico nella borsa di padre de Soya, quando A. Bettik venne avanti e si schiarì la voce.

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