«Parti oggi, Raul?» domanda padre Duré, con la sua morbida cadenza francese.
«Appena terminato quest’ottimo caffè» rispondo. Comincio a sentire il calore del sole sulle braccia nude e sulla nuca.
«Dove vai?» domanda padre de Soya.
Apro bocca per rispondere, la chiudo. Mi accorgo di non averne la minima idea. Dove cercherò il figlio di Aenea? E se l’osservatore ha portato il bambino, o bambina, in un remoto sistema solare che non ho mai visto e che quindi non posso raggiungere? E se è tornato sulla Vecchia Terra, posso davvero teleportarmi a centosessantamila anni luce di distanza? Aenea l’ha fatto. Ma forse ha avuto l’aiuto dei Leoni e Tigri e Orsi. Riuscirò un giorno a sentire quelle voci nel complesso coro del Vuoto? Mi pare tutto troppo smisurato e indistinto e irrilevante.
«Non so dove andrò» dico, con voce da bambino sperduto. «Volevo andare sulla Vecchia Terra, perché Aenea desiderava che… le sue ceneri… ma…» Imbarazzato ed emozionato, indico la montagna di pietra fusa che fu Castel Sant’Angelo. «Forse tornerò su Hyperion» riprendo. «A trovare Martin Sileno.» "Prima che muoia" aggiungo tra me.
Ci alziamo, beviamo le ultime gocce di caffè ormai freddo, spazziamo le briciole delle deliziose focaccine. A un tratto sono colpito da un ovvio pensiero. «Qualcuno di voi vuole venire con me?» domando. «O andare da qualche parte? Penso di ricordare come ci si teletrasporta, ed Aenea ci portava con lei semplicemente tenendoci per mano. Anzi, teleportava l’intera Yggdrasill, solo con la forza di volontà.»
«Se vai su Hyperion» dice padre de Soya «avrei piacere di accompagnarti. Ma prima ti devo mostrare una cosa. Scusateci, padre Duré, Bassin.»
Seguo padre de Soya nel villaggio e nella sua piccola chiesa. Nella sacrestia, larga appena quanto basta a contenere un guardaroba di legno per i paramenti e il piccolo altare secondario con le ostie e il vino, il prete scosta la tenda di una nicchia e ne toglie un corto cilindro metallico, più piccolo di un thermos da caffè. Me lo porge; allungo la mano, sto quasi per prenderlo e all’improvviso mi blocco come impietrito e non riesco a toccarlo.
«Sì» dice de Soya. «Le ceneri di Aenea. Tutto ciò che siamo riusciti a ricuperare. Non molto, purtroppo.»
Mi tremano le dita, ancora non riesco a toccare l’opaco cilindro metallico. Balbetto: «Come? Quando?».
«Prima dell’attacco finale del Nucleo» risponde piano de Soya. «Alcuni di noi, che liberavano i prigionieri, ritennero prudente rimuovere i resti cristiani della tua amica. C’era chi voleva conservarli come sacra reliquia, inaugurando un altro culto. Avevo la netta impressione che Aenea non avrebbe approvato. Sbagliavo, Raul?»
«No, non sbagliava» dico. La mano ora mi trema visibilmente. Non riesco ancora a toccare il cilindro e ho difficoltà a parlare. «No, assolutamente. Avrebbe detestato una cosa del genere. Avrebbe maledetto la sola idea. Non so quante volte abbiamo discusso la tragedia dei buddhisti che trattavano il Buddha come un dio e i suoi resti come reliquie. Anche il Buddha chiese che il suo corpo fosse cremato e le sue ceneri sparse, in modo che…» Non riesco più a proseguire.
«Sì» dice de Soya. Prende dall’armadio una borsa di tela nera e vi depone il cilindro. Si mette a tracolla la borsa. «Posso portarlo io, se andiamo via insieme.»
«Grazie.» Non riesco a dire altro. Non posso conciliare con quel piccolo cilindro metallico la vita e l’energia di Aenea, la sua pelle e i suoi vividi occhi e il suo profumo di pulito, il suo tocco e la sua risata e la sua voce e i suoi capelli e tutta la sua presenza fisica. Abbasso la mano prima che de Soya veda quanto forte trema.
«Pronto a partire?» dico infine.
De Soya annuisce. «Vorrei solo dire ad alcuni amici qui al villaggio che starò via per qualche giorno. Ti sarà possibile lasciarmi qui, più avanti, nel viaggio per… per dovunque andrai?»
Rimango un po’ sorpreso. Ma certo che sarà possibile. Avevo pensato al mio commiato odierno come a un viaggio conclusivo, interstellare. Ma finché avrò vita, Pacem, come qualsiasi altro posto dell’universo, sarà sempre lontano da me solo un passo. "Se ricordo come udire la musica delle sfere e teleportarmi di nuovo" penso. "Se riesco a portare con me un altro. Se non si è trattato di un dono di una sola volta, che ho già perduto senza saperlo."
Ora tremo in tutto il corpo. Mi dico che è solo colpa del troppo caffè e rispondo con voce rotta: «Sì, certo. Mentre lei si prepara, vado a fare due chiacchiere con padre Duré e con Bassin».
L’anziano gesuita e il giovane militare sono ai margini di un piccolo campo di mais e discutono se è il momento migliore per raccogliere le pannocchie. Duré ammette che propende per raccoglierle subito soprattutto perché adora le pannocchie abbrustolite. I due mi sorridono appena mi avvicino. «Padre de Soya viene con te?» domanda Duré.
Rispondo con un cenno di assenso.
«Per favore, porgi a Martin Sileno i miei più calorosi saluti» dice il gesuita. «Lui e io abbiamo condiviso per via indiretta alcune interessanti esperienze, molto tempo fa, a pianeti di distanza. Ho sentito parlare dei suoi Canti, ma sono riluttante a leggerli, confesso.» Sorride. «Se non sbaglio, le leggi dell’Egemonia sulla diffamazione a mezzo stampa sono cadute in prescrizione.»
«Credo che abbia lottato per restare in vita tutto questo tempo, al solo scopo di terminare quei Canti » dico piano. «Ora non li terminerà mai.»
Padre Duré sospira. «Nessuna vita è lunga abbastanza per chi vuole creare, Raul. O per chi vuole semplicemente capire se stesso e la propria vita. Forse è la maledizione di appartenere alla specie umana, ma è anche una benedizione.»
«In che senso?» domando. Ma prima che Duré possa rispondermi, padre de Soya e alcuni abitanti del villaggio ci raggiungono e c’è un brusio di discussioni e di saluti e di inviti a tornare. Guardo la sacca nera: il prete vi ha messo dell’altro, oltre all’urna con le ceneri di Aenea.
«Una tonaca pulita» dice de Soya, vedendo la direzione del mio sguardo. «Biancheria di ricambio. Calzini. Alcune pesche. La mia Bibbia e il messale e l’occorrente per dire messa. Non so quando tornerò.» Indica la gente che si affolla intorno a noi. «Ho dimenticato come avvenga esattamente. Occorre più spazio?»
«Non credo. Lei e io dovremmo essere fisicamente a contatto, forse. Almeno per il primo tentativo.» Mi giro, stringo la mano a Kee e a padre Duré. «Grazie di tutto.»
Kee sorride e arretra come se stessi per sollevarmi sui gas di scarico di un razzo e lui non volesse bruciarsi. Padre Duré mi stringe la spalla un’ultima volta. «Penso che ci rivedremo, Raul Endymion» dice. «Ma forse non prima di un paio d’anni.»
Non capisco, ho appena promesso di riportare padre de Soya nel giro di qualche giorno. Ma annuisco come se avessi capito, stringo di nuovo la mano al gesuita e mi scosto.
«Dobbiamo tenerci per mano?» dice de Soya.
Metto la mano sulla spalla del prete, proprio come ha fatto Duré un attimo prima nei miei riguardi, e controllo che il grafer sia appeso alla cinghia. «Così dovrebbe andare bene.»
«Omofobia?» dice de Soya, con un sorriso birichino.
«Riluttanza a fare la figura da sciocco più spesso del necessario» replico. Chiudo gli occhi, quasi sicuro che stavolta la musica delle sfere non sarà lì, quasi sicuro di avere dimenticato completamente come muovere quel passo nel Vuoto. "Se non altro" penso "qui il caffè e la conversazione sono buoni, se devo restarci per sempre."
La luce bianca ci circonda e ci racchiude.
Mi ero fatto l’idea che padre de Soya e io saremmo emersi nella città abbandonata di Endymion, forse proprio accanto alla torre del vecchio poeta; ma quando, battendo le palpebre, si estinse il bagliore del Vuoto, ci trovammo nel buio fitto, in una pianura ondulata, col vento che sibilava nell’erba che a me arrivava al ginocchio e al prete a mezza coscia.
Читать дальше