Linc lo ascoltava appena. Si guardava le mani e i piedi fasciati. — Mi hai salvato dai topi.
— No, ti sei salvato da solo — precisò il vecchio. — Io ti ho salvato solo dal morire di freddo o dissanguato. Sei andato a sbattere contro il mio sbarramento elettrificato e ti sei preso una scossa che ti ha messo fuori combattimento. Ho dovuto uscire a prenderti. Non aspettavo visite. Ma mi fa piacere che tu sia venuto.
— Sei… sei davvero Jerlet?
Il vecchio assentì vigorosamente e i riccioli scomposti gli si agitarono intorno alla testa.
Linc si grattò la testa e si accorse che anche i suoi capelli lunghi fluttuavano privi di peso.
— Senti, piccolo, so di non essere molto presentabile, ma sono anni e anni che vivo qui solo… da quando tu e i tuoi coetanei arrivavate appena ai pulsanti dei selettori della cucina automatica.
— Perché ci hai lasciato?
Jerlet si strinse nelle spalle. — Stavo morendo. Se fossi rimasto giù, a gravità terrestre, la mia vecchia pompa non avrebbe retto.
— Cosa? Non capisco!
Jerlet gli sorrise, e quel sorriso era stranamente dolce nella vecchia faccia irsuta. — Vieni, ti spiegherò durante il pranzo.
— Cos’è il pranzo?
— Roba da mangiare. La migliore del mondo… di questo mondo, almeno.
Jerlet precedette Linc fuori dalla stanzetta lungo uno stretto corridoio così ripido che Linc riusciva a vedere solo fino a pochi passi davanti. Ma continuava a essere privo di peso.
— Qui non siamo proprio a gravità zero — spiegò Jerlet mentre percorrevano galleggiando il corridoio. — Ce n’è quel tanto che basta perché una cosa stia al suo posto, se l’appoggio. Ma coi tuoi muscoli abituati alla Ruota Viva devi avere l’impressione di una completa mancanza di peso.
Linc annuì anche se non aveva capito bene tutto. Dev’essere proprio Jerlet, pensò. Ma è completamente diverso da come lo immaginavo.
Passarono davanti a una porta doppia. — Laboratorio di biologia — disse Jerlet indicandola. — Dove siete nati tutti voi. Te lo mostrerò dopo.
Linc non aprì bocca. Le parole di Jerlet erano un enigma per lui.
Jerlet infilò a fatica la sua mole nell’apertura che dava in un’altra stanzetta dove c’erano un tavolo rotondo e alcune morbide sedie. Una parete era coperta di pulsanti, piccoli sportelli e strani simboli.
— Un selettore di cibi! — esclamò Linc. — Funziona?
— Certo! — rispose vivacemente Jerlet. — Guarda come sono grasso. Credi che abbia lasciato andare in malora i riciclatori di viveri?
Linc esaminò i pulsanti e i simboli che li contrassegnavano.
— Avanti — lo incitò Jerlet. — Prendi quello che vuoi. È tutta roba buona.
— Oh… — Linc aveva l’impressione di essere diventato improvvisamente stupido. — Come faccio a sapere cosa devo premere. Giù, a casa, lo sapevamo, prima che il selettore si guastasse…
— Si è guastato? — chiese Jerlet sorpreso. — I servomeccanismi non l’hanno riparato?
— Si sono rotti anche loro.
— E allora come… Vi preparate da mangiare da soli? Linc annuì.
Il vecchio pareva molto turbato. — Non credevo che le macchine si guastassero così presto. Specie quelle addette alle riparazioni. Non sono così intelligente come credevo. — Posò una mano sulla spalla di Linc. Quando riprese a parlare, la sua voce aveva un timbro strano, quasi come se avesse paura di quello che diceva. — Quanti di voi… sono ancora vivi?
— Più di tutte e due le mani — rispose Linc.
— Tutte e due le mani? Non conoscete i numeri? Non sai contare? Cosa ne è stato dei nastri didattici?
Linc ebbe l’impressione di averlo offeso. — Posso dirti i nomi di tutti. Va bene lo stesso?
Jerlet non rispose e Linc cominciò: — Prima di tutti naturalmente viene Magda, la sacerdotessa. Poi Monel, e Stav… — e proseguì elencando i nomi di tutti. Stava per nominare anche Peta, ma si trattenne.
— Cinquantasette — commentò Jerlet. Pareva molto scosso. Si allontanò dal selettore e si avvicinò a una sedia lasciandovisi cadere pesantemente, nonostante la gravità ridotta. — Cinquantasette su cento. In quasi quindici anni ne sono morti quasi la metà… — Si coprì la faccia con le mani.
Linc, immobile accanto al selettore, non sapeva cosa fare. Continuava a fissare la mole enorme del vecchio contenuta a stento nella sedia, meravigliandosi che nonostante la gravità così tenue le sue gambe sottili non cedessero al suo peso.
Finalmente il vecchio tornò a sollevare la faccia. Aveva gli occhi rossi. — Non capisci? — disse con voce rotta, tremante, come se pregasse. — Sono stato io a crearvi. Voi siete miei figli come se io fossi il vostro padre naturale… Vi ho creati e poi sono stato costretto a lasciarvi. E adesso la metà di voi è morta… Per colpa mia…
Linc lo guardava sbalordito.
Jerlet si districò dalla sedia e mosse con fare incerto verso Linc. — Non capisci? — Adesso parlava con voce forte, che sembrava un ruggito straziante. — È colpa mia! Voi dovevate essere i più belli, la nuova generazione, la migliore che fosse mai esistita! Eravate destinati a raggiungere il nuovo mondo… allevati con cura e amore… E INVECE SIETE UN BRANCO DI SELVAGGI IGNORANTI!
La sua voce rimbombava fra le pareti della stanzetta. Linc arretrò urtando inavvertitamente la tastiera del selettore.
— Cinquantasette! — tuonò Jerlet. — Selvaggi stupidi e ignoranti. — Avanzò barcollando verso Linc, poi si fermò, scosso da singhiozzi ansimanti. — No… Non adesso — mormorò fra sé. Ma fissava Linc, e i suoi occhi erano rossi e ardenti come quelli dei topi. Ma non esprimevano odio. Erano pieni di dolore.
— Non… capisci… niente? — ansimò il vecchio, con voce bassa e roca. — Non capisci? No, è al di fuori della tua comprensione…
Linc avrebbe voluto dire qualcosa, oppure scappare, ma era paralizzato e non riusciva neanche a ritrovare la voce.
Jerlet agitò debolmente una mano carnosa e uscì dalla stanza.
È pazzo pensò Linc. Come Robar quando cercò di entrare nel compartimento della morte insieme al corpo di Sheila. Quello che dice non ha senso.
Era incerto se seguire Jerlet, ma in quel momento si accorse che il selettore aveva deposto del cibo sul ripiano. Devo aver premuto dei bottoni quando mi sono appoggiato al muro pensò.
Il cibo, chiuso in involucri ben curati, era sistemato dentro piccoli contenitori su un vassoio. Linc diede un’occhiata alla porta.
Meglio lasciarlo solo. Se è veramente Jerlet, tornerà, pensò.
Portò il vassoio sul tavolo. Aprì gli involucri e guardò le strane cose che contenevano. In uno c’era un liquido dal colore strano, un colore che somigliava a quello di alcuni cavi elettrici della Ruota Viva. Era freddo al tatto. La seconda scatola era un contenitore oblungo pieno di una cosa che sembrava carne. Quando Linc sollevò la plastica trasparente che lo copriva emanò calore. Linc l’annusò. Aveva proprio odore di carne. Il terzo conteneva un ammasso informe di sostanza fredda e biancastra. Linc ci infilò un dito e se lo portò alla bocca. Era dolce! Non aveva mai assaggiato niente di simile, prima.
Senza pensare a scegliere altro, sedette al tavolo. Quella roba aveva un aspetto strano ma era buona.
Il suo primo pasto nel regno di Jerlet consistette in succo d’arancia, bistecca di soia e gelato di crema.
Linc dormì lì nella saletta da pranzo. Il pavimento era morbido e caldo, e lui vi si sdraiò e si addormentò subito.
In sogno vide Jerlet e alcune persone della Ruota Viva. Magda cercava di dirgli qualcosa, ma Monel si frapponeva tra loro. Era tutto strano e confuso.
Poi, sempre in sogno, cadeva nel buio coi diabolici occhi rossi dei topi che lo inseguivano. Gli occhi diventavano più tardi uno solo, enorme, accompagnato da un vocione tonante. Linc continuava a cadere nel vuoto e nel buio, aveva freddo, era solo e disperato…
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