Ben Bova
Ritorno dall’esilio
Il vetro era freddo.
Linc lo strofinò col dorso della mano e sentì il gelo della morte mordergli la pelle. Tremava tutto. Si gelava lì al buio, fuori dal Posto dei Fantasmi, ma lui non tremava di freddo.
Doveva decidersi. Era in gioco la vita di Peta. E prima di decidere, Linc doveva sapere.
Asciugandosi la mano sul tessuto leggero della tuta, guardò attraverso il vetro appannato nel Posto dei Fantasmi.
Erano là, come sempre.
Erano più di quanti Linc ne riuscisse a contare. Più delle dita di tutte e due le mani. Fantasmi.
Sembravano uomini e donne in carne e ossa. Ma naturalmente nessuna persona di quell’età viveva ancora nella Ruota. Gli adulti erano morti tutti, a eccezione di Jerlet, che viveva molto lontano, al di sopra della Ruota.
I fantasmi erano rimasti congelati dove li aveva colti la morte. Molti stavano seduti davanti alle strane macchine allineate lungo una parete. Alcuni giacevano sul pavimento. Uno era inginocchiato con la schiena contro la parete opposta, gli occhi chiusi come se stesse meditando. Quasi tutti voltavano la schiena a Linc, ma le poche facce che riusciva a vedere erano contorte nell’agonia e nel terrore. Linc rabbrividì ricordando la prima volta che li aveva visti, quando era riuscito a stento ad arrampicarsi sulle spalle di un vecchio servomeccanismo morto e aveva visto, sbirciando attraverso il vetro appannato dal gelo, l’orrendo spettacolo.
Adesso non mi fa più paura si disse.
Ma sentiva ancora il sudore freddo colargli lungo la schiena ossuta; l’odore della paura era reale, e pungente.
I fantasmi stavano ai loro posti fissando con gli occhi ciechi la lunga parete curva piena di strane macchine. I tavoli a cui stavano seduti erano pieni di pulsanti e di luci; gli schermi murali che li sovrastavano erano opachi come i loro occhi… quasi tutti, almeno. Linc ebbe un tuffo al cuore quando si accorse che alcuni erano ancora illuminati e vi apparivano strani disegni che cambiavano di continuo.
Capì che alcune macchine funzionavano ancora.
I fantasmi, un tempo, erano stati persone vere. Vere come Magda o Jerlet o chiunque altro. Ma non si muovevano mai, non respiravano, non distoglievano mai lo sguardo fisso dalle macchine morte e moribonde.
Erano persone vere, un tempo. E un giorno… un giorno anch’io diventerò un fantasma. Come loro. Irrigidito nel gelo della morte.
Ma qualcuna delle antiche macchine funzionava ancora; qualche schermo, sulla parete, era illuminato. Questo significa che le macchine devono continuare a funzionare. Significa che io dovrei cercare di riparare le macchine che Peta ha rotto?
Adesso il tremito che lo scuoteva si era fatto spasmodico. Faceva freddo lì al buio. Linc doveva tornare nella sezione abitabile, dove c’erano caldo e luce, e gente viva. Forse era vero che i fantasmi vagavano lungo i corridoi della Ruota quando tutti dormivano. Forse erano vere tutte le storie paurose che Magda raccontava.
Il tragitto di ritorno alla sezione abitabile fu lungo e penoso. Molti corridoi erano bloccati, chiusi da pesanti portelli di metallo. Altri lunghi tratti erano pericolosi per un viandante solitario, infestati com’erano da ratti famelici.
Linc dovette seguire un tunnel per salire al livello superiore, dove si sentiva così leggero che gli pareva quasi di planare come uno degli uccelli variopinti giù nella sezione fattoria della Ruota Viva. Tese le gambe e con un salto solo coprì più passi di quante dita contasse la mano.
Il secondo livello era un posto strano. I corridoi bui e vuoti erano fiancheggiati da porte sigillate che recavano contrassegni di cui lui non capiva il senso. Ma Jerlet aveva promesso da tempo che un giorno avrebbe spiegato cosa volevano dire.
Qui lui era solo e libero, e scivolava in lunghi balzi. Dimenticò i fantasmi, dimenticò che Peta era in difficoltà, dimenticò perfino Jerlet e Magda. Nella sua mente c’era posto solo per l’emozione di quella corsa simile a un volo, e per le parole di un’antica canzone. Da non molto tempo la sua voce si era fatta più profonda, non diventava più stridula o rauca quando si metteva a cantare. Ne ascoltò con gioia l’eco riflessa dalle nude pareti del corridoio:
Weeruffa seethu wizzer
Swunnerfool wizzeruv oz…
Poi, con un salto raggiunse un grande oblò e per poco non scivolò cercando di vincere l’inerzia per fermarsi a guardare attraverso l’ampia lastra di vetroplastica.
Fuori, le stelle ruotavano lentamente, silenziose, solenni, senza mai ammiccare. Quante stelle! C’erano più stelle di quante erano le persone che abitavano nella Ruota Viva. Più degli uccelli e degli insetti e di tutti gli altri animali, giù nella fattoria. Erano ancora più numerose dei topi. Quante!
Aveva afferrato bene il senso di quanto Jerlet aveva insegnato? Secondo lui Jerlet aveva voluto dire che la Ruota Viva, e tutte le altre ruote su su fino ai livelli più alti, facevano parte di una macchina enorme che ruotava portandoli da una stella all’altra. Linc scosse la testa. Era difficile capire il senso di quello che Jerlet diceva, e poi stava a Magda interpretarlo, non a lui.
Poi apparve la stella gialla. Era più luminosa di tutte le altre, così abbagliante che a guardarla facevano male gli occhi. Linc strizzò le palpebre e voltò la faccia, ma continuava a vedere la chiazza gialla ovunque guardasse.
Dopo qualche istante la chiazza sbiadì. E Linc si sentì gelare il sangue nelle vene.
Perché aveva visto, sulle piastre logore del pavimento, un’ombra vaga che si allungava risalendo lungo la parete di fronte all’oblò.
Ma si rese subito conto che era la sua ombra. Questa constatazione, tuttavia, non eliminò la paura. Perché la luce che produceva l’ombra era quella della stella gialla.
Sta davvero avvicinandosi a noi si disse Linc. Le antiche leggende sono vere!
Con le spalle all’oblò e alla stella gialla, gli occhi fissi sull’ombra che andava lentamente spostandosi, Linc si sentì prendere dal panico.
La stella gialla viene a prenderci. Ci farà diventare tutti fantasmi!
Linc non seppe mai per quanto tempo rimase davanti all’oblò, paralizzato dalla paura. La sua ombra continuò ad avanzare strisciando nel buio, per poi riapparire, ancora e ancora.
Finalmente trovò la forza di muoversi, balbettando: — Se lo dico agli altri impazziranno. Magda, però… devo dirlo a Magda.
La sua voce suonava strana alle sue stesse orecchie. Tremula, acuta, incerta. — Vorrei che Jerlet fosse ancora con noi.
Si avviò a passo lento, evitando di proposito i lunghi salti allegri e leggeri. Sbirciò attraverso il primo portello aperto, poi si fermò sulla piattaforma che si apriva sulla lunga scala a chiocciola metallica del tunnel. Jerlet stava lassù in alto, dove le leggende dicevano che non c’era peso e tutto galleggiava a mezz’aria. Giù dove stavano gli altri, quelli come lui, nella Ruota Viva, c’erano calore, cibo e vita.
E paura.
— Jerlet. Devo trovare Jerlet — disse fra sé e sé Linc con voce decisa, sebbene non avesse idea di quanto lungo fosse il tragitto, né delle difficoltà che avrebbe incontrato.
Linc posò il piede scivoloso sul primo gradino della scala di metallo che portava verso l’alto ma un fruscio sommesso, lieve come un sospiro, lo immobilizzò.
Ancora un altro. Un leggero fruscio nel buio. Qualcosa di soffice che si posava sui gradini di metallo nell’ombra sottostante.
Topi?
Da tempo non c’erano più topi in quel tubo-tunnel, e per liberarlo quattro amici di Linc erano morti. Quei piccoli mostri lottavano con ferocia quando non potevano scappare o nascondersi.
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