Ben Bova - Ritorno dall'esilio

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Ritorno dall'esilio: краткое содержание, описание и аннотация

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La possibilità di creare in via sperimentale, ma in grande serie, razze di superuomini e sottouomini, ci porrebbe già oggi problemi gravissimi. Ma su una Terra sovrappopolata, dove l’equilibrio sociale, economico, psicologico è appeso a un filo, gli scienziati responsabili di un così esplosivo progetto debbono essere fermati a qualsiasi costo. Come? Quando la persuasione non basta, e lo sterminio è impraticabile, si ricorre al vecchio sistema dell’esilio. Solo che qui si tratta di un esilio extraterrestre, di una Siberia cosmica. E una colonia penale formata dai migliori cervelli del mondo deve combattere duramente non solo per sopravvivere nello spazio, ma anche per trovare un sistema di convivenza accettabile, uno scopo, una meta.

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Si svegliò con un sussulto. Giaceva a faccia in giù sul morbido pavimento della saletta, ed era madido di sudore. Doveva aver urlato perché aveva ancora la bocca aperta. Si mise a sedere, ormai completamente sveglio. I sogni svanirono negli oscuri recessi della mente, dove l’oblio copre tutto.

Piegò le ginocchia fino all’altezza del mento, circondandole con le braccia, e cercò di concentrarsi.

Subito gli venne da sorridere. «Magda, ovunque tu sia, perdonami. Non mi va di meditare. Non voglio chiedere a Jerlet cosa devo fare. Voglio scoprirlo da solo.»

Era divertente ma anche penoso. Per poco non sono morto cercando Jerlet, e quando l’ho trovato ho scoperto che è matto… Forse pericoloso gli venne fatto di pensare. Forse cercherà di farmi del male… di uccidermi. Era così furibondo all’ora dell’ultimo pasto.

Andò ad aprire cautamente la porta e sbirciò in quello strano corridoio angusto in forte pendenza. Nessuno in vista. Si avviò in punta di piedi socchiudendo altre porte. Nessuna traccia di Jerlet, sebbene due delle stanze fossero camere da letto complete di docce a ultrasuoni e rastrelliere piene di strani indumenti.

Qui tutte le macchine funzionavano. Linc notò che le luci erano vivide e non vacillavano. Quando entrò in una delle camere da letto la porta si richiuse automaticamente alle sue spalle. Girò un rubinetto, un beccuccio di metallo lucente posto al di sopra di una vaschetta dello stesso metallo, e l’acqua fluì subito limpida e fresca.

Scommetto che funziona anche la doccia a ultrasuoni.

Esaminò gli indumenti appesi a una rastrelliera nell’incavo della parete vicino al letto. A prima vista gli sembravano troppo piccoli per lui, ma quando provò una camicia scoprì che il tessuto cedeva e si adattava perfettamente alla sua misura. E così anche i calzoni.

Ed erano di tanti colori diversi!

Uno degli schermi a muro aveva una forma strana. Andava dal pavimento al soffitto ed era così stretto che se fosse stato una porta Linc ci sarebbe passato a malapena. E poi era luminoso e rifletteva con precisione tutto quello che c’era nella stanza. Linc non aveva mai visto uno specchio prima, ma ne approfittò istintivamente per rimirarsi mentre provava abiti di colori diversi. Alla fine si decise per una camicia a collo alto dello stesso azzurro dei suoi occhi e un paio di calzoni marrone. In un altro ripostiglio trovò scarpe leggere che gli si adattarono perfettamente.

— Salve!

Linc sussultò come se avesse preso una scossa.

— Salve! — ripeté la voce roca di Jerlet — Mi senti?

Veniva da un altoparlante a grata sul soffitto. Sulla parete davanti al letto c’era uno schermo, ma era spento.

— Senti, tu… accidenti, non mi ricordo come ti chiami. Insomma, figliolo, stammi a sentire, ieri ero sconvolto e mi sono comportato da idiota. Mi dispiace.

Linc notò una piccola tastiera sul tavolino accanto al letto. Si chiese se doveva provare a premere qualche pulsante.

— Non ti gioverà nasconderti. Prima o poi dovrai mangiare — stava dicendo Jerlet. — E io ti voglio aiutare. Te l’assicuro, figliolo. Ieri mi sono comportato in un modo… be’, ti spiegherò se me ne darai la possibilità. Attiva almeno uno schermo, così posso vederti… Ma come ti chiami, accidenti? So che me l’hai detto, ma hai fatto anche i nomi di tutti gli altri, e così adesso non ricordo… sarà perché invecchio.

Linc si avvicinò al tavolino con la tastiera dai pulsanti colorati. Gli girava la testa, non tanto per la gravità ridottissima quanto per lo sforzo di prendere una decisione. Lentamente, con riluttanza, allungò la mano…

— Se vuoi attivare uno schermo — stava dicendo Jerlet, — premi il pulsante rosso su una delle tastiere…

Il dito di Linc premette il bottone rosso e sullo schermo a muro di fronte al letto comparve il faccione irsuto di Jerlet.

— So che ieri sera mi sono comportato come un pazzo — stava dicendo con enfasi. — …Oh, eccoti.

Linc lo guardò negli occhi. Avevano un’espressione triste, addolorata.

— Linc. Mi chiamo Linc.

Jerlet chinò la grossa testa facendo tremolare le guance.

— È vero! Linc. Me l’avevi già detto ma non lo ricordavo.

Linc voleva rispondere ma non sapeva cosa dire.

Jerlet riprese a parlare. — Ho visto che ti sei lavato e cambiato. Bravo! Ci troviamo nell’autocucina, d’accordo? Ho tante cose da mostrarti.

— L’autocucina?

— Sì, la saletta dove c’è il selettore dei cibi.

— Ah, va bene. D’accordo.

— Sai come fare per arrivarci?

Linc assentì. — Troverò la strada.

— Va bene. Ci vediamo. — Il vecchio sorrideva contento. Sorrideva ancora quando infilò la sua mole attraverso la soglia dell’autocucina e veleggiò verso Linc tendendo la mano tozza.

— Linc, non so che abitudini avete voi giù nella zona abitabile, ma è una vecchia usanza umana che due persone si stringano la mano quando s’incontrano.

Imbarazzato e perplesso, Linc tese la mano.

Jerlet agitò un dito. — No, non quella… la destra.

Con una scrollata di spalle, Linc porse la destra e lasciò che Jerlet gliela stringesse. È più forte di quello che pensavo giudicò Linc dalla stretta energica del vecchio.

— Bene! — Jerlet era raggiante. — Adesso ci siamo presentati ufficialmente. Ho tante cose da mostrarti. — Si fregò le mani. — Cominciamo dal selettore. Ti faccio vedere come funziona.

Mangiarono abbondantemente. Jerlet mostrò a Linc una quantità di cibi nuovi che non aveva mai visto prima. Via via che mangiava si sentiva riscaldare piacevolmente lo stomaco, e i suoi sospetti su Jerlet svanirono.

Poi cominciarono a visitare il mondo privo di peso del vecchio. Questi mostrò a Linc i generatori di energia, quelle misteriose macchine ronzanti che fornivano l’elettricità a tutte le parti della nave. Poi fu la volta del computer principale, con le sue luci ammiccanti e le strane voci cantilenanti. Quindi una stanza piena di servomeccanismi, rigidi e immobili, con le braccia di metallo che pendevano lungo i fianchi, e i sensori disattivati.

— Sono morti? — chiese con voce intimidita Linc.

— Vorrai dire disattivati — corresse col suo vocione Jerlet. — Qua… lascia che ti faccia vedere. — Prese una piccola cassetta di comandi da uno scaffale e premette un pulsante sul coperchio. Il più vicino servomeccanismo si mosse voltandosi verso Jerlet sulle sue rotelle silenziose.

— Visto? Funzionano perfettamente.

— Giù da noi sono morti tutti da un pezzo — disse Linc.

Il vecchio sbuffò. — Bene, vedremo di provvedere.

Portò Linc lungo il corridoio fino a una porta doppia che dava in una strana stanza silenziosa. Linc sapeva di non esserci mai stato, eppure il lieve odore che vi aleggiava lo fece rabbrividire. La stanza era piena di sfere di vetro, di lunghe tubature ricurve, schermi, scrivanie, altri oggetti di vetro, metallo e plastica che Linc non aveva mai visto.

— È il laboratorio di genetica — spiegò Jerlet. La sua voce aveva un timbro diverso: un po’ orgoglioso e un po’ triste. — Qui sei nato tu, Linc. E tutti i tuoi compagni della sezione abitabile.

— Qui?

Jerlet annuì. — Sì. Abbiamo preso spermatozoi e ovuli da quei criofrigoriferi dietro lo schermo antiradiazioni lassù — indicò una massiccia parete metallica, — e portato a termine i feti in quelle capsule. Tutto eseguito con la massima cura, con precisione scientifica. Ogni esemplare è stato scelto per la sua perfezione genetica. Ogni neonato portato a termine è stato curato e allevato nel miglior modo dettato dagli psicologi. Una generazione di bambini mentalmente e fisicamente perfetti… Dei geni condannati a vivere in un ambiente idiota.

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