— Allora voglio che uno di voi vada nella camera del lancio e dia una mano a predisporre i parametri — proseguì Lindsay. — E che l’altro venga con me e mi aiuti a caricare l’anello di lancio. E non una sola parola con nessuno sul nostro accordo, capito?
— Tu facci fare il nostro lancio, e noi ti faremo apparire a posto con gli altri. Come se tu ci avessi convinti unicamente grazie al tuo carisma, d’accordo?
— Queste sono le mie condizioni — disse Lindsay. — Voi rispettate i miei segreti, ed io rispetterò i vostri. Adesso, chi di voi due andrà a predisporre il lancio?
— Lo farò io — disse Paolo. Si contorse per passare davanti a Lindsay nell’angusta galleria, e scomparve al buio, diretto alla cabina di comando del lancio.
Fazil sbirciò fuori. — Cosa c’è nella cassa? — chiese.
— Le prove — disse Lindsay. — Souvenirs di passate scorrerie e cose del genere. Cose che potrebbero imbarazzarci ora che ci siamo insediati qui una volta per tutte. — Era metà della verità, come la concepiva Lindsay. L’imbarazzo non si sarebbe manifestato su ESAIRS XII ma al cartello Mech, quando i pirati avrebbero dovuto comportarsi nella miglior maniera possibile. Cartelli importanti come Themis erano molto pignoli: perfino nelle loro città destinate ai cani solari, l’aperta pirateria veniva condannata.
I pirati avevano riempito la cassa a sua insaputa e gli avevano detto di lanciarla. Da quel gesto, lui aveva saputo che il loro colpo era concluso.
Fazil avanzò nella galleria con la sua candela. — Posso dare un’occhiata? — Allungò una mano verso la cassa, facendo passare il braccio davanti a Lindsay. Uno scarafaggio nero come la pece spuntò con la testa dalle assicelle di plastica, facendo osciUare le antenne sottili come fruste e lunghe quanto un avambraccio. Fazil tirò indietro la mano con un fischio di disgusto. Lindsay cercò di agguantare lo scarafaggio, ma lo mancò.
— Sudicio — borbottò Fazil. — Aiutami con la testa.
Lindsay lo seguì nel laboratorio. Insieme sollevarono l’enorme testa e con non poche contorsioni la portarono fuori nel corridoio. Nell’angusta galleria, quasi aderiva alle pareti. — Forse dovremmo ungerla — suggerì Lindsay.
— Il volto di Paolo non partirà per l’eternità con il moccio al naso — dichiarò Fazil. Spense la candela con un soffio e tornò a chiudere il laboratorio. Spinse la scultura davanti a sé, in direzione dell’anello di lancio. Lindsay lo seguì, con la cassa a rimorchio.
Il percorso era tortuoso, attraversava vene di roccia completamente esaurite, nelle quali l’aria ristagnava. Il molo di carico dell’anello era vicino alla superficie dell’asteroide, situato nella parete di uno dei maggiori centri industriali di ESAIRS XII. Qui, vicino all’anello di lancio, venivano fabbricate le esche. Il complesso delle esche sembrava un grappolo d’uva, costituito di sacchi per la fermentazione, collegati da tubi idraulici flosci, ancorati con cavi e circondati da banchi di genera-luce che irradiavano una luminosità di un aspro colore bluastro. Il grappolo era appeso a mezz’aria, nelle sue camere translucide la sostanza veniva sbattuta con grande lentezza.
Il complesso non era stato chiuso del tutto: ciò avrebbe ucciso il “ware” organico. Ma la sua produzione era stata ridotta quasi a niente. I tubi di uscita erano stati staccati dai loro sbocchi nel condotto dell’anello di lancio. Invece della sottile pellicola delle esche, producevano una spessa schiuma incolore. L’aria era satura del pungente puzzo febbricitante della plastica rovente.
Il robot della Famiglia era in servizio. Si fermò a metà del programma quando Fazil gli fluttuò davanti, stringendo la grande testa. Quando passò Lindsay, il robot si rannicchiò in silenzio: stringeva un soffiapolvere nei suoi manipolatori anteriori. Il suo unico gigantesco occhio s’inclinò per seguire i suoi movimenti, con uno sferragliare di ruote dentate.
Il robot era un insieme di cavi e di snodi, i suoi sei arti scheletrici erano fatti di leggera schiuma metallica. Era più grande di Lindsay. Il cervello e il motore si trovavano nel suo tronco, debitamente schermati, dietro a costole simili a sbarre. L’estremità anteriore conteneva i sensori e due lunghe braccia snodate a forma di tenaglia. Quattro arti rotanti disposti in croce sporgevano dalla sua estremità di poppa, sistemati in quel modo per lavorare in caduta libera. Disponeva di una coda a mandrino per la perforazione.
Al robot mancava la scioltezza di una unità mech, ma mostrava un’allarmante vitalità. Era come uno scheletro animato, un animale vivisezionato, ridotto al riflesso nervoso d’un ginocchio sussultante.
Quando Lindsay uscì dal raggio d’azione del robot, questi si rimise in movimento con un clic, si allontanò dalla parete con un calcio, e impiantò il suo soffiapolvere nel condotto umido di un sacco di fermentazione.
Fazil strisciò sopra la testa e l’afferrò a ridosso della parete.
L’anello di lancio aveva una camera d’equilibrio di plastica translucida. Fazil staccò dalla parete una tuta spaziale verde imballata strettamente e scuotendola la fece uscire dall’involucro. Se l’infilò, chiudendo la chiusura lampo, e aprì la cerniera sulla parete della camera di equilibrio. Entrò.
Lindsay gli passò la cassa.
Fazil richiuse la cerniera della camera di equilibrio, e aprì la camera di carico. Una sezione rettangolare della parete ricurva scivolò verso l’alto, azionata da perni esterni caricati a molla. L’aria, con la forza di una raffica, si proiettò fuori nel vuoto dell’anello di lancio.
Le sottili pareti della camera di equilibrio vennero risucchiate verso l’interno, appiccicandosi come la pellicola d’una bolla di sapone a un traliccio interno di sostegno.
Cinque giganteschi scarafaggi e una folla di altri più piccoli schizzarono fuori dall’interno della cassa, zampettando disperatamente nel vuoto. Fazil strillò dietro la visiera trasparente. Agitò da ogni lato la testa mentre gli scarafaggi davano in convulsioni, sbattendo freneticamente le ali sottili come la carta. La decompressione fece gonfiare il loro addome. Una schiuma cominciò a trasudare dalle giunture e dal dorso. Uno scarafaggio si aggrappò, vomitando, alla plastica accanto al viso di Lindsay. Aveva mangiato qualcosa all’interno della cassa: qualcosa di rosso e vischioso.
Esili fili di vapore uscivano dalla cassa. Fazil non se ne accorse: stava sbattendo gli scarafaggi fuori, nell’anello di lancio.
A sua volta, Fazil attraversò il portello ed entrò nell’anello, tirando la cassa dietro di sé. Con un certo sforzo riuscì a piazzarla dentro la gabbia di lancio.
Ne emerse. Poi sbatté fuori dal portello della camera l’ultimo degli insetti morti, e lo chiuse. Una luce verde, che segnalava via libera, si accese, quando il portello chiuse automaticamente il circuito. Un LED esibì a grande velocità una sfilza di numeri quando l’energia per il lancio investì i magneti.
Fazil aprì la cerniera dell’ingresso, e l’aria si precipitò dentro. La camera di equilibrio di plastica sbatté come una vela. Fazil si arrampicò fuori tremando. Le sue grida erano attutite dalla tuta.
— Hai visto? — Aprì la propria chiusura lampo fino a metà torace. — Cosa c’era là dentro? Cos’è che stavano mangiando?
— Non li ho visti quando hanno imballato la cassa. Poteva essere qualunque cosa.
Fazil esaminò la manica macchiata della sua tuta. — Sembra sangue.
Lindsay si fece più vicino. — Non ha l’odore del sangue.
— Questa è una prova — dichiarò Fazil, battendo la mano sulla propria tuta.
Lindsay era pensieroso. I pirati gli avevano mentito. Avevano tentato di essere scaltri. Scaltri come i Plasmatori. Avevano tentato di far sparire qualcuno. — Sarebbe meglio, Fazil, se lanciassimo quella tuta.
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