— Hai visto Ian, oggi? — chiese Fazil.
— Non l’ho cercato.
Si guardarono. Lindsay non disse niente. Da sopra la spalla Fazil lanciò un’occhiata rapida e guardinga verso il LED. — È stata lanciata — annunciò.
— Se lancerai la tuta — disse Lindsay — io pulirò l’interno della camera di equilibrio.
— Non ho intenzione di lanciare questa tuta con la testa — dichiarò Fazil.
— Potresti metterla dentro una camera — disse Lindsay, indicandogliela. — Le vasche di fermentazione. — Pensò in fretta. — Se lo farai, ti aiuterò a far funzionare questo complesso alla massima capacità. Potrete produrre di nuovo le esche.
Lindsay staccò un’altra tuta dalla parete e ne scosse l’involucro per farla uscire. — Lanceremo la testa. Butteremo via la tuta. Prima faremo queste due cose, e poi parleremo. Va bene?
Il momento per attaccare era quando Lindsay aveva entrambe le gambe mezzo intrappolate nella tuta. Ma quel momento passò, e ancora una volta Lindsay seppe di aver guadagnato tempo. Lui e Fazil spinsero con le mani la testa dentro la camera di equilibrio. Fazil chiuse la cerniera della camera di equilibrio dietro di loro. Lindsay aprì il portello rettangolare.
La luce si riversò dentro l’interno vetroso dell’anello di lancio, riflettendosi sulle tracce di rame incassate lungo l’anello. Le sbarre d’acciaio della gabbia di lancio luccicavano di un sottile strato di vapore condensato, emanato dal corpo che si era trovato dentro la cassa.
Lindsay entrò nell’anello di lancio, spinse la testa dentro la gabbia e chiuse i ganci.
L’ombra di Fazil passò davanti alla luce. Aveva dato una spinta al portello per chiuderlo. Lindsay si girò di scatto e balzò in quella direzione.
Riuscì a far passare il braccio destro. Il portello rimbalzò sulla carne e sull’osso e la sua tuta cominciò subito a riempirsi di sangue.
Lindsay digrignò i denti quando incastrò la testa e le spalle oltre il portello. Ghermì la gamba di Fazil con la mano sinistra. Le punte delle sue dita affondarono nella cavità della caviglia del plasmatore, sbattendo lo stinco contro il bordo tagliente del portello. Vi fu un raschiare di ossa e Fazil, strappato all’indietro, perse la presa.
Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio, ancora stringendo la caviglia dell’altro. E conficcò il piede nell’inguine di Fazil. Mentre Fazil veniva colto dalle convulsioni, Lindsay gli afferrava la gamba e la piegava in due, incastrandogli un braccio dietro al ginocchio. Si sorresse appoggiandosi al corpo del plasmatore e diede uno strattone verso l’alto, torcendo fuori dal suo alveo il femore.
In preda all’agonia, Fazil si dibatté per trovare un appiglio. La sua mano colpì l’orlo del portello, chiudendolo del tutto. Il circuito dell’anello scattò, e la luce di via libera si accese.
Lindsay continuò a stringere la gamba e a torcerla. Due globi del suo stesso sangue gli galleggiarono davanti, all’interno della visiera. Sternuti, accecato, e Fazil gli tirò un calcio sul collo. Perse la presa e il plasmatore lo attaccò.
Buttò le braccia intorno al petto di Lindsay con la forza indotta dal panico e dalla disperazione. Lindsay ansimò, e una nera incoscienza gravò su di lui per quattro lunghi battiti cardiaci. Poi scalciò e il suo piede colse l’orlo del traliccio di sostegno della camera di equilibrio. Rotearono, aggrappati l’uno all’altro, Lindsay sbatté con forza il gomito sul lato della testa del plasmatore. La stretta si allentò, Lindsay ruotò il braccio libero sopra la testa di Fazil e gli afferrò il collo in una morsa a martello. Fazil strinse di nuovo le costole di Lindsay, che si piegarono sotto la forza delle sue braccia plasmorinforzate.
Lindsay incrociò lo sguardo di Fazil attraverso la visiera schizzata di sangue. Il suo volto s’increspò orridamente, e gli occhi di Fazil divennero vitrei per il terrore, mentre cercava di liberarsi a unghiate. Lindsay gli spezzò il collo.
A Lindsay parve di soffocare. La sua tuta non aveva un serbatoio dell’aria: era concepita soltanto per brevi permanenze. Doveva uscire fuori, all’aria.
Si girò in direzione dell’uscita dalla camera di equilibrio. Kleo era là. I suoi occhi erano scuri, affascinati e terrorizzati insieme. Stringeva la linguetta della chiusura lampo esterna.
Lindsay la fissò, ammiccando più volte quando una microgoccia di sangue gli si appiccicò alle sopracciglia. Kleo tirò fuori la sua arma favorita: un ago e il filo.
Lindsay si allontanò con un calcio dal corpo di Fazil. Cercò di afferrare la linguetta della chiusura lampo. Ma, con poche, agili mosse, Kleo la cucì.
Lindsay la tirò freneticamente. Il sottile filo aveva la consistenza dell’acciaio. Scrollò la testa. — No! — Il vuoto lo circondava. Era tagliato fuori. Le parole, che l’avevano sempre salvato, non potevano valicare quello spazio.
Lei si fermò lì, per vederlo morire. Sopra di lui, il LED continuava a palpitare. Le luci si stavano oscurando. Un lancio fuori dall’eclittica richiedeva la massima potenza.
Lindsay tirò con la sinistra il portello. Avvertì una debole vibrazione percorrergli le dita. Prese a calci il portello, selvaggiamente, per due, tre volte, e qualcosa cedette. Tirò con tutta la sua forza. Il portello si aprì, ma soltanto per l’ampiezza di un dito.
Le valvole di sicurezza saltarono. E tutte le luci si spensero. Poi il portello si aprì facilmente. L’oscurità era totale. Lindsay non sapeva quanto avrebbe impiegato la gabbia per il lancio, che stava girando in tondo, a fermarsi con una brusca frenata all’interno dell’anello. Se stava ancora vorticando a molti klick al secondo, gli avrebbe reciso il braccio o la gamba con la precisione di un laser.
Non poteva aspettare a lungo. L’aria all’interno della tuta era terribilmente densa del suo alito e del puzzo di sangue.
Si decise e spinse la testa fuori, nell’anello.
Sopravvisse.
Adesso doveva affrontare un altro problema. La gabbia era ferma in qualche punto all’interno dell’anello, bloccandolo. Se l’avesse raggiunta mentre cercava di arrivare all’esterno, avrebbe dovuto tornare indietro, sprecando aria. Sinistra o destra?
Sinistra. Senza respirare profondamente, cercando di favorire il braccio ferito, cominciò a procedere a balzi all’interno dell’anello. Serrò le braccia intorno al petto, usando solo le gambe, rimbalzando, slittando, facendo le capriole.
Trecento metri. Quella era la metà della lunghezza dell’anello. Tutto quello che avrebbe dovuto percorrere. Ma se avesse trovato l’uscita dell’anello di lancio bloccata dalla plastica mimetizzante? E se avesse già oltrepassato l’uscita nel buio senza accorgersi di niente?
La luce delle stelle. Lindsay balzò freneticamente verso l’alto, ricordandosi solo all’ultimo momento di afferrarsi all’orlo. La gravità di ESAIRS XII era così debole che il suo balzo l’avrebbe posto in orbita circumsolare.
Ancora una volta era fuori dall’asteroide, fra strisce d’un nero carbonizzato e le scorie biancastre delle esplosioni.
Balzò attraverso un cratere, mancando quasi il bordo opposto.
Quando avanzò, afferrandosi a un tratto di pietra pomice, la roccia si sbriciolò sotto le sue dita, e lui fu trascinato in una lenta orbita appena sopra la superficie.
Stava già rantolando quando trovò la seconda camera di equilibrio. Una pellicola di plastica incassata nella superficie di ESAIRS XII dove la Famiglia aveva per la prima volta trivellato la superficie. Scostò la pellicola e azionò i comandi del portello. Il braccio destro continuava a sanguinargli. Se lo sentiva rotto un’altra volta.
Il portello si aprì con uno schiocco. Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio e chiuse il portello esterno dietro di sé. Poi, ce n’era un secondo. Lindsay continuava ad ansimare: ogni respiro gli offriva meno aria respirabile, e sentiva in bocca il sapore del sangue.
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