«Ho detto: entra», disse Mina.
Vedendo che il nano non muoveva muscolo, alzò la voce: «Mio signore...».
Basalt si affrettò ad arrampicarsi dentro il sarcofago. Una lastra di pietra discese sulla bara, chiudendo dentro il nano.
«Tocca a te», disse Mina a Caele. Spostò la lama dalla gola alle costole e lo accompagnò all’altro sarcofago. Poiché lui esitava, Mina gli fendette la carne a sufficienza da persuaderlo a obbedire.
Caele si affrettò ad arrampicarsi all’interno, e discese su di lui una lastra di pietra.
«Sono morti, mio signore?» domandò Mina.
«No», rispose Chemosh, la cui voce risuonò al di sopra del rombo furioso della dea del mare. «Non ancora. Hanno aria sufficiente per respirare per breve tempo, se non si fanno prendere dal panico e non consumano tutta l’aria gridando.»
Gli ululati attutiti che provenivano dalla bara del mezzelfo cessarono di colpo.
«Adesso vai dove devi andare», le disse Chemosh.
«E Zeboim?»
«Non ti infastidirà. Cosa piuttosto strana, è qui per salvarti.»
Un altro tremito scosse la Torre, facendo barcollare Mina.
«E Nuitari?»
«Questioni familiari terranno occupato per un periodo considerevole il dio dalla faccia di luna. Sta cercando di sistemare le cose con i cugini. Al suo ritorno scoprirà di dovere molte spiegazioni a sua sorella. Per adesso la Torre del Mare di Sangue è tutta tua, Mina. Sei sola al suo interno.»
«A parte il guardiano. Mi serve un’arma, mio signore.»
«No, non ti serve, Mina», ribatté Chemosh. «Solo una delle dragonlance ti sarebbe d’aiuto contro questo guardiano, e purtroppo non ne ho nessuna a disposizione. Hai il tuo ingegno, Mina, e hai la mia benedizione. Usali entrambi.»
«Sì, mio signore», disse Mina, e rimase sola.
Mina trovò la lunga scala a chiocciola che percorreva l’interno della Torre e incominciò a scenderla. La scala era fatta di madreperla e ruotava a spirale, rammentando a Mina l’interno di una conchiglia di nautilo. Mina vedeva qua e là crepe sulle pareti, presumibilmente dovute alle scosse che la Torre subiva per mano della dea infuriata, e temeva che il prossimo tremito spaccasse le pareti. Fortunatamente le scosse che facevano tremare la Torre cessarono. Mina non riusciva a vedere fuori, ma immaginò che Nuitari fosse ritornato e stesse ora cercando di placare la furiosa sorella.
All’interno della Torre vi era silenzio. L’acqua marina che circondava la struttura sembrava aspirare via i suoni, per cui ogni rumore provocato all’interno risultava attenuato.
Il silenzio aveva un effetto calmante. Adesso che non era più prigioniera, Mina qui si sentiva a casa propria. Trovava confortante sapere che il mare la cullava. Forse questo suscitava qualche ricordo da tempo sepolto del naufragio che le aveva portato via i genitori e l’aveva lasciata orfana, un ricordo che era sempre presente, subito sotto la superficie. Un ricordo che lei non riusciva mai a rievocare del tutto.
«La nostra mente cancella simili eventi traumatici per proteggerci da questi», le aveva detto una volta Goldmoon. «Forse un giorno ricorderai ciò che ti è successo o forse non lo ricorderai mai. Non crucciarti per questo, bambina. È del tutto naturale.»
Mina si era crucciata. Si sentiva in colpa e provava vergogna per non avere alcun ricordo di quei genitori che l’avevano amata teneramente, forse perfino avevano sacrificato la vita per lei, e si sforzava di riportare alla mente i loro volti o il suono della voce di sua madre. Divenne ossessionata dallo sforzo di ricordare, un’ossessione che era terminata soltanto quando l’Unico Dio, Takhisis, l’aveva rimproverata di perdere tempo.
«Non importa chi ti ha dato alla luce!» le aveva detto Takhisis, fredda e furiosa. «Sono io tua madre. Sono io tuo padre. Vieni da me per avere protezione e soccorso e nutrimento.»
Mina aveva obbedito al comando così come aveva obbedito a tutti gli altri impartitile dall’Unico Dio. Non si era mai permessa di pensare più ai suoi genitori, finché non era stata imprigionata in questa Torre sotto il mare. Nella Torre aveva tanto tempo a disposizione, tempo per pensare, tempo per ricordare la propria infanzia. Le erano ritornate la frustrazione e la vergogna e l’esigenza di sapere. Mina aveva cura di tenere per sé la propria ossessione. Non voleva far incollerire Chemosh così come aveva fatto incollerire Takhisis.
La scala a chiocciola era illuminata da globuli magici di luce collocati a intervalli regolari e ravvivati quotidianamente da Basali. Le porte che si aprivano di fianco alle scale conducevano ai vari piani della Torre. Mina le guardò con curiosità. Le sarebbe piaciuto esplorare, vedere come fossero edificate le stanze e che aspetto avessero, poiché la Torre la affascinava.
Non ne aveva il tempo, però. «Lo rimanderò a un altro giorno», si disse, sorridendo a quel pensiero, poiché sapeva perfettamente che non aveva probabilità di rivedere mai più l’interno di questa Torre.
La scala finalmente la condusse alla base della Torre. Mina si imbatté in una porta di acciaio con listelli di bronzo e iscrizioni in rune. Erano state intagliate rune anche sull’arco di pietra attorno alla porta. Mina riconobbe in quelle rune il linguaggio della magia, lo stesso che aveva letto nel libro datole da Nuitari. Sapeva che cosa dicessero le rune; però non sapeva che cosa significassero.
Lasciando perdere le rune, Mina esaminò la porta, cercando qualche modo per entrare. La porta non aveva maniglia né serratura. Le rune probabilmente fornivano informazioni su come aprire la porta. Mina cercò di recitarle ad alta voce, invano. La porta non si smosse.
Frustrata, Mina diede un calcio alla porta.
La porta ruotò agevolmente e silenziosamente attorno a un perno centrale e si aprì.
«È troppo facile. È una trappola», mormorò Mina.
Non entrò. Avvicinandosi alla soglia ad arco, la esaminò attentamente.
«Che idiota sono!» si rimproverò. «Se questa è una trappola, è magica, e io non la scoprirò comunque. Tanto vale provarci.»
Mina varcò la soglia e rimase piacevolmente sorpresa nel trovarsi a emergere incolume dall’altra parte. Rimase meno piacevolmente sorpresa nell’udire la porta ruotare e chiudersi di scatto alle sue spalle. Da questa parte della porta non vi erano rune. A quanto pareva, una volta dentro, bisognava conoscere il segreto di come tornare fuori.
Alzando le spalle, Mina si girò. Avrebbe affrontato questo problema quando fosse giunto il momento. Adesso aveva davanti a sé il suo compito. Un compito strabiliante. Si trovava davanti quella che pareva un’enorme vasca sferica per pesci.
Mina e gli altri bambini dell’orfanotrofio tenevano pesci in vaschette sferiche di vetro piene d’acqua. Ai bambini veniva insegnato a dare da mangiare ai pesci e a prendersi cura di loro. I bambini osservavano le loro abitudini e si meravigliavano di come quelle creature respirassero acqua con altrettanta facilità quanto le persone respiravano aria. Questo globo era simile a quelle vaschette per i pesci, con la differenza che era molto, ma molto più grande: aveva una circonferenza pari alla Torre stessa. Le pareti erano coperte di rune incise nel vetro. Raggi di sole illuminavano il globo e le creature che nuotavano all’interno.
«È bellissimo», disse sottovoce Mina, sgomenta. «Bellissimo e micidiale.»
Le aggraziate meduse, che andavano alla deriva alla mercé delle correnti turbinanti, uccidevano le loro prede pungendole con un veleno che paralizzava la vittima e le impediva di scappare. Queste meduse erano enormi, diverse volte più grandi di Mina, con tentacoli abbastanza lunghi da invischiare un uomo adulto.
Un calamaro gigante, tanto grande da trascinare una nave sotto le onde, era steso scompostamente sul fondo, con i tentacoli che fremevano nel sonno. Vari esemplari di pastinaca scivolavano lungo i lati di cristallo del globo. Mostruosi squali toro nuotavano qua e là, aprendo e chiudendo le fauci colme di denti affilati come rasoi. Il fondo era coperto di coralli urticanti, belli da vedere, ustionanti al contatto.
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