Terry Pratchett - L’arte della magia

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Il terzo romanzo del Mondo Disco e anche il primo del "sottociclo" delle streghe.

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Esk sedeva sul letto, illesa ma urlante. La vecchia la prese in braccio e cercò di confortarla. Non era sicura di come ci si comportava in simili casi. Ma dei colpetti distratti sulla schiena e vaghe parole rassicuranti parvero funzionare. E gli urli diventarono lamenti e, alla fine, singhiozzi. Qua e là la Nonnina distingueva parole come "fuoco" e "rovente" e la sua bocca si strinse in una piega amara.

Dopo un bel po’, riadagiò la bimba sul letto, le rimboccò le coperte e scese piano le scale.

La verga era di nuovo al suo posto contro la parete. Né lei fu sorpresa nel vedere che il fuoco non aveva lasciato alcuna traccia.

Girò la poltrona a dondolo in modo da averla di fronte e si sedette con il mento su una mano, sul viso un’espressione di cupa determinazione.

La poltrona prese a dondolarsi da sola. Era l’unico rumore nel silenzio che si faceva più spesso e si spandeva a riempire la stanza come una terribile nebbia scura.

La mattina seguente, prima del risveglio di Esk, la vecchia nascose la verga nella paglia, in luogo sicuro.

Esk mangiò la sua colazione e bevve un bicchierone di latte di capra, senza il minimo segno degli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore. Era la prima volta che si trovava nel cottage della Nonnina per più di una breve visita. Mentre questa lavava i piatti e mungeva le capre, lei approfittò dell’implicito permesso di esplorare il posto.

Scoprì così che la vita nel cottage non era del tutto normale. A cominciare, per esempio, dal nome delle capre.

— Ma devono avere un nome! — esclamò. — Ogni cosa ha un nome.

La vecchia la guardò sporgendo la testa dal fianco a forma di pera dell’animale che guidava il gregge, mentre il latte zampillava nel basso secchio.

— Direi che hanno un nome nel linguaggio delle capre — rispose vagamente. — Perché mai dovrebbero averne uno nel linguaggio umano?

— Be’ — cominciò Esk e si fermò. Rimase per un po’ a riflettere. — Allora, come ottieni che facciano quello che vuoi tu?

— Lo fanno e basta, e quando mi vogliono si mettono a belare forte.

Esk tese con aria grave alla capra una manciata di fieno. La Nonnina la osservava pensierosa. Le capre avevano i loro propri nomi, lei lo sapeva: "capra che è mia figlia", "capra che è mia madre, "capra che guida il gregge" e una mezza dozzina di altri nomi, non ultimo quello di "capra che è questa capra". Avevano per regolare il gregge un sistema complicato, quattro stomachi e un apparato digerente assai attivo, come si sentiva bene nelle notti quiete. Per questo, secondo la Nonnina, dare loro dei nomi quali Botton d"oro sarebbe stato un insulto a un nobile animale.

— Esk — chiamò, dopo essere giunta a una decisione.

— Sì?

— Cosa ti piacerebbe fare da grande?

Il viso della piccola si fece inespressivo. — Non lo so.

Senza smettere di mungere, la Nonnina insisté: — Be’, cosa credi che farai quando sarai cresciuta?

— Non so. Mi sposerò, suppongo.

— Lo desideri?

Le labbra della piccola si aprirono a formare la lettera "N" ma, incontrando l’occhio della Nonnina, Esk ci ripensò.

— Tutte le persone grandi che conosco sono sposate — disse alla fine. E, dopo averci ripensato, aggiunse cauta: — Eccetto te.

— E vero.

— Non desideravi sposarti?

Fu la volta della vecchia di riflettere.

— Non mi ci sono mai decisa — dichiarò poi. — Troppe altre cose da fare, capisci.

— Il babbo dice che sei una strega — arrischiò.

— Infatti.

Esk annuì. Nelle Ramtop si accordava alle streghe la stessa condizione sociale che altre culture riconoscevano alle monache o agli esattori delle tasse o agli addetti alla pulizia dei pozzi neri. In altre parole, esse venivano rispettate, qualche volta ammirate, in generale applaudite per fare un lavoro che andava fatto. Ma la gente non si sentiva mai del tutto a proprio agio in una stessa stanza con loro.

— Ti piacerebbe imparare l’arte di una strega? — chiese la Nonnina.

— Vuoi dire la magia? — Gli occhi di Esk brillavano.

— Sì, la magia. Non quella dei fuochi d’artificio. Magia vera.

— Sai volare?

— Ci sono cose migliori che volare.

— E io posso impararle?

— Se i tuoi genitori dicono di sì.

Esk sospirò. — Mio padre non lo farà.

— Allora dovrò scambiare una parola con lui — disse la Nonnina.

— Adesso stammi a sentire, Gordo Smith!

Il fabbro indietreggiò attraverso la fucina, le mani alzate per ripararsi dalla furia della vecchia che avanzava verso di lui, l’indice puntato con aria indignata.

— Io ti ho portato al mondo, stupido, e in te non c’è più buon senso di quanto ce ne fosse allora…

— Ma… — L’uomo si provò a protestare, girando intorno all’incudine.

— La magia ha trovato la tua bambina! La magia dei maghi! La magia sbagliata, m’intendi? Una magia che non era destinata a lei!

— Sì, ma…

— Hai idea di ciò che è capace di fare?

Il fabbro si diede per vinto. — No.

La Nonnina fece una pausa e un po’ della sua collera sbollì.

— No — ripeté più sommessamente. — No, non potresti.

Si sedette sull’incudine e cercò di calmarsi.

— Ascolta. La magia è dotata di una specie… di vita propria. Questo non ha importanza perché… a ogni modo, capisci, la magia dei maghi… — Alzò gli occhi e leggendo l’incomprensione sul suo volto, provò di nuovo: — Be’ conosci il sidro?

Il fabbro fece cenno di sì. Adesso si sentiva su terreno più sicuro, ma non era certo di dove l’avrebbe condotto.

— E poi c’è l’acquavite — disse la strega.

Lui annuì. A Cattivo Somaro, d’inverno, tutti facevano l’acquavite, lasciando fuori di notte i recipienti con il sidro e togliendo via il ghiaccio finché non restava che una piccola quantità di alcol.

— Be’, uno può bere una gran quantità di sidro e sentirsi meglio, e questo è quanto, non è così?

Il fabbro annuì di nuovo.

— Ma l’acquavite, uno la beve in boccali piccoli e a piccole dosi e non spesso, altrimenti va subito alla testa?

Di nuovo lui fece di sì e, conscio di non dare un grande contributo al dialogo, aggiunse: — È così.

— Ecco la differenza — dichiarò la Nonnina.

— Differenza da che cosa?

La vecchia sospirò. — La differenza tra la magia delle streghe e quella dei maghi. Ed è quest’ultima che l’ha trovata, e se lei non la controlla, allora ci sono Coloro che controlleranno lei. La magia può essere una specie di porta e dall’altra parte ci sono delle Cose spiacevoli. Capisci?

Il fabbro annuì. In realtà non capiva, ma supponeva a ragione che, se rivelava questo fatto, la Nonnina si sarebbe addentrata in orribili dettagli.

— La bambina ha uno spirito forte e forse ci vorrebbe del tempo. Ma presto o tardi loro la sfideranno — concluse la vecchia strega.

L’uomo prese un martello dalla panca, lo fissò come se non l’avesse mai visto prima, e lo rimise giù.

— Ma — protestò — se lei è dotata della magia dei maghi, non le servirà a niente imparare l’arte delle streghe. Tu hai detto che sono due cose diverse.

— Sono entrambe magiche. Se non puoi imparare a cavalcare un elefante, almeno puoi imparare a montare a cavallo.

— Che cos’è un elefante?

— Una specie di tasso — rispose la Nonnina. Non avrebbe mantenuto per quaranta anni la sua credibilità come esperta della foresta, se avesse mai ammesso la propria ignoranza.

Il fabbro sospirò. Riconosceva di essere stato sconfitto. Sua moglie aveva chiaramente ammesso di essere favorevole all’idea e, adesso che ci pensava, c’erano dei vantaggi. La Nonnina non sarebbe vissuta in eterno e, tutto sommato, essere il padre dell’unica strega di tutta la zona non sarebbe stato male.

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