Terry Pratchett - L’arte della magia

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Il terzo romanzo del Mondo Disco e anche il primo del "sottociclo" delle streghe.

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Esk capiva che era necessario farsi coraggio, ma in una notte come quella il coraggio durava solo finché una candela rimaneva accesa. Attraversò la cucina scura, con gli occhi ben chiusi, finché arrivò alla porta.

Nel focolare un grosso grumo di fuliggine venne giù con un tonfo. E quando la piccola udì raspare freneticamente in provenienza del camino, tirò il chiavistello, aprì la porta e uscì a precipizio nella notte.

Il freddo era tagliente come la lama di un coltello e la neve si era coperta di una crosta di ghiaccio. Esk non si preoccupava di sapere dove fosse diretta, ma il terrore la spingeva ad arrivarci, ovunque fosse, il più rapidamente possibile.

Nel cottage la cornacchia atterrò pesantemente nel focolare in mezzo alla fuliggine, borbottando irritata tra sé e sé. Si allontanò saltellando nell’ombra e un momento dopo ci fu lo scatto del nottolino della porta che dava sulla scala e un fruscio su per i gradini.

Esk si alzò il più possibile sulla punta dei piedi e tastò con la mano il tronco dell’albero per cercare la tacca. Questa volta ebbe fortuna, ma la traccia segnata dalle incisioni le rivelò che si trovava a quasi due chilometri dal villaggio e che era scappata nella direzione sbagliata.

Nel cielo c’era uno spicchio di luna e una manciata di stelle, piccole, lucenti e fredde. Intorno a lei la foresta era un intrico di nere ombre e di pallida neve. E non tutte le ombre erano immobili, lei se ne rendeva conto.

Tutti sapevano che nelle montagne c’erano i lupi, perché certe notti il loro ululato riecheggiava giù dalle cime, ma raramente si avvicinavano al villaggio. I moderni lupi erano la progenie di antenati che erano sopravvissuti perché avevano imparato che la carne umana aveva spigoli aguzzi.

Ma l’inverno era estremamente rigido e quel branco era abbastanza affamato da dimenticare tutto della selezione naturale.

Esk ricordava le raccomandazioni che si facevano a tutti i bambini. Arrampicarsi su un albero. Accendere un fuoco. Quando ogni altro mezzo fallisce, trovare un bastone e almeno picchiarli. Non cercare mai di correre più veloci di loro.

L’albero dietro a lei era un faggio, dal tronco liscio. Impossibile arrampicarcisi.

Esk osservò una lunga ombra staccarsi da una chiazza buia e farsi un po’ più vicina. Si inginocchiò, stanca, spaventata, incapace di pensare, e frugò nella neve così gelida da bruciarle le dita, in cerca di un bastone.

Nonnina Weatherwax aprì gli occhi e fissò il soffitto screpolato e rigonfio come una tenda.

Si concentrò per ricordarsi di avere delle braccia e non delle ali, e perciò nessun bisogno di saltellare. Dopo una trasformazione, era sempre consigliabile restare stesa per un po’, per riabituare la mente al proprio corpo. Ma sapeva di non averne il tempo.

— Accidenti alla bambina — borbottò e cercò di volare sulla spalliera del letto. La cornacchia, che già decine di volte aveva vissuto quella esperienza e che considerava (per quanto gli uccelli siano capaci di considerare qualcosa, il che è davvero poco) che una buona dieta di cotenne di lardo e avanzi scelti di cucina nonché un posatoio caldo per la notte valesse bene il disturbo di lasciare di tanto in tanto che la Nonnina condividesse la sua testa, la osservava con blando interesse.

Trovati gli stivali, la Nonnina scese pesantemente le scale, resistendo all’impulso di scivolare. La porta era spalancata e sul pavimento c’era già un pulviscolo di neve.

— Oh, mannaggia — esclamò. Si chiese se dovesse cercare di trovare la mente di Esk. Ma le menti umane non erano mai così acute e limpide come quelle animali, e comunque la potenza della mente della foresta stessa rendeva una ricerca improvvisata difficile quanto distinguere il rumore di una cascata durante un temporale. Però, anche senza vederlo, la vecchia riusciva a sentire la mente del branco di lupi: una sensazione forte e acuta che riempiva la bocca con il gusto del sangue.

Sulla crosta di ghiaccio, riusciva a stento a distinguere le piccole impronte, già quasi cancellate dalla neve fresca. Imprecando e borbottando. Nonnina Weatherwax si strinse nello scialle e si avviò.

Nella fucina il gatto bianco si svegliò sul suo personale ripiano dov’era acciambellato, nell’udire i rumori provenienti dall’angolo più buio. Il fabbro aveva accuratamente richiuso le grandi porte quando era uscito con i ragazzini divenuti quasi isterici. Il gatto osservò con interesse l’ombra sottile che tentava il chiavistello e controllava i cardini.

Le porte erano di quercia, rese più dure dal calore e dagli anni, ma questo non gli impedì di essere scaraventate dall’altra parte della strada.

Il fabbro, che percorreva in fretta il sentiero, udì un suono nel cielo. Anche la Nonnina lo udì. Un suono ben preciso, simile al fruscio di oche in volo, e al suo passaggio le nuvole grevi di neve ribollirono e si contorsero.

Anche i lupi lo udirono, mentre volteggiava basso sulle cime degli alberi e si avventava sulla radura. Ma lo udirono troppo tardi.

Adesso Nonnina Weatherwax non aveva bisogno di seguire le orme. Si lasciò guidare dai lampi di luce irreale in distanza, dagli strani fruscii e tonfi sordi, e dagli ululati di dolore e di terrore. Due lupi le sfrecciarono accanto con le orecchie appiattite, decisi a schiacciare sotto le zampe qualunque ostacolo si trovasse sulla loro strada.

Un rumore di rami spezzati. Una sagoma grossa e pesante si abbatté su un abete vicino alla Nonnina e crollò, uggiolando, nella neve. Un altro lupo la superò descrivendo una traiettoria orizzontale all’altezza della sua testa e rimbalzò sul tronco di un albero.

Quindi il silenzio.

La Nonnina si fece strada tra i rami coperti di neve.

Scorse un largo circolo dove la neve era appiattita. Ai margini, dei lupi erano stesi a terra morti oppure saggiamente decisi a non muoversi.

La verga era piantata diritta nella neve e alla Nonnina sembrò che si voltasse a guardarla mentre lei le passava accanto cercando accuratamente di evitarla.

Al centro del circolo c’era anche un mucchietto, arrotolato su se stesso. La vecchia si inginocchiò con un certo sforzo e allungò una mano per toccarlo con delicatezza, ma si fermò un momento prima di sfiorare la spalla di Esk. Alzò uno sguardo minaccioso sulla verga intagliata, sfidandola a muoversi ancora.

L’aria si fece più spessa. Sembrò che il bastone arretrasse anche senza muoversi. Allo stesso tempo un che di indefinibile fece comprendere in modo inequivocabile alla strega come la verga non si considerasse sconfitta. Per lei si trattava semplicemente di una mossa tattica e non desiderava in alcun modo che la vecchia pensasse di avere vinto, perché non era affatto così.

Esk ebbe un brivido. La Nonnina le batté dolcemente sulla spalla.

— Sono io, piccola. La Nonnina.

Il mucchietto rimase immobile.

La vecchia si morse un labbro. Non sapeva mai bene cosa fare con i bambini, che lei considerava (seppure le capitava di pensarci) una via di mezzo tra gli animali e gli esseri umani. I neonati li capiva. Bastava dargli del latte da una parte e mantenere l’altra parte pulita per quanto possibile.

Gli adulti erano ancora più facili, perché provvedevano da sé a nutrirsi e a tenersi puliti. Ma tra i due c’era tutto un mondo di esperienza di cui lei non si era mai occupata. Per quanto ne sapeva, era sufficiente impedire che gli succedesse qualcosa di fatale e sperare che tutto finisse per il meglio.

La Nonnina, dunque, era imbarazzata, ma sapeva di dover fare qualcosa.

— I lupi cattivi ci hanno spaventato, allora? — azzardò.

Per qualche misteriosa ragione, la cosa sembrò funzionare. Una voce soffocata venne dall’interno della palla: — Ho otto anni, sai.

— A otto anni, non ci si appallottola in mezzo alla neve — ribatté la Nonnina, cercando di destreggiarsi nelle complicazioni di una conversazione tra adulto e bambino.

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