J.K. Rowling - Harry Potter e l'Ordine della Fenice

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Harry Potter e l'Ordine della Fenice: краткое содержание, описание и аннотация

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Il quarto volume delle avventure di Harry Potter ci ha lasciato con il fiato sospeso: Lord Voldemort è tornato. Che cosa succederà ora che l’Oscuro Signore è di nuovo in pieno possesso dei suoi terrificanti poteri? Quanta morte e distruzione seminerà nel tentativo di riprendere il dominio dei mondo? Sono le stesse domande che si pone Harry Potter, disperatamente segregato — come tutte le estati — nella casa dei suoi zii Babbani, lontano dal mondo magico che gli appartiene. Ma qualcosa è cambiato anche in lui. Ormai quindicenne, lo ritroviamo divorato dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’ansia di ribellione tipiche della sua età. In uno dei libri più attesi nella storia della letteratura, J.K. Bowling non cessa di stupirci. Tessendo un’altra stupefacente trama, riesce questa volta a dar voce alle inquietudini dell’adolescenza, ad arricchire il suo già mirabolante universo di nuove creature e nuovi indimenticabili personaggi, e anche a metterci in guardia contro la stupidità del potere e di chi lo usa per combattere il talento, il coraggio, la fantasia e la diversità.

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Harry non aveva mai pensato prima d’allora di poter odiare un altro insegnante più di Piton, ma tornando alla Torre di Grifondoro dovette ammettere che Piton aveva un valido concorrente. È cattiva, pensò, salendo una scalinata per andare al settimo piano, è una perfida, perversa vecchia pazza…

«Ron?»

In cima alle scale, aveva girato a destra e quasi era andato a sbattere contro Ron, appostato dietro una statua di Lachlan l’Allampanato, con il suo manico di scopa stretto in pugno. Fece un gran balzo di sorpresa quando vide Harry e cercò di nascondere la sua nuova Tornado Undici dietro la schiena.

«Che cosa fai?»

«Ehm… niente. E tu

Harry lo guardò accigliato.

«Andiamo, a me puoi dirlo! Perché ti nascondi?»

«Io… io mi nascondo da Fred e George, se vuoi saperlo» disse Ron. «Sono appena passati con un gruppo del primo anno, scommetto che stanno sperimentando dell’altra roba su di loro. Voglio dire, adesso non possono farlo in sala comune, no? C’è Hermione».

Parlava velocissimo, in modo febbrile.

«Ma come mai hai la scopa, non sei andato a volare, no?» chiese Harry.

«Io… be’… be’, va bene, te lo dico, ma tu non ridere, d’accordo?» disse Ron sulla difensiva, diventando ogni secondo più rosso. «Io… io pensavo di fare il provino per il posto da Portiere di Grifondoro adesso che ho una scopa decente. Ecco. Avanti. Ridi».

«Non sto ridendo» rispose Harry. Ron sbatté le palpebre. «È un’ottima idea! Sarebbe forte se entrassi nella squadra! Non ti ho mai visto giocare da Portiere, sei bravo?»

«Non sono male» disse Ron, che parve immensamente sollevato dalla reazione di Harry. «Charlie, Fred e George mi facevano sempre stare in porta quando si allenavano durante le vacanze».

«Allora questa sera ti sei allenato?»

«Tutte le sere da martedì… da solo, però. Sto cercando di stregare le Pluffe perché vengano da me, ma non è facile e non so quanto servirà». Ron era nervoso e preoccupato. «Fred e George moriranno dal ridere quando mi presenterò ai provini. Da quando sono diventato prefetto non la smettono di prendermi in giro».

«Vorrei esserci» disse Harry amareggiato mentre si avviavano insieme verso la sala comune.

«Sì, anch’io… Harry, che cos’hai alla mano?»

Harry, che si era appena grattato il naso con la mano destra libera, cercò di nasconderla, ma ebbe tanto successo quanto Ron con la sua Tornado.

«È solo un taglio… non è niente… è…»

Ma Ron afferrò l’avambraccio di Harry e sollevò il dorso della sua mano all’altezza degli occhi. Ci fu una pausa, durante la quale fissò le parole incise nella pelle; poi, con l’aria di sentirsi male, lasciò andare la mano.

«Credevo che ti desse solo delle frasi da scrivere».

Harry esitò, ma dopotutto Ron era stato sincero con lui, così gli raccontò la verità sulle ore che aveva trascorso nell’ufficio della Umbridge.

«Quella vecchia megera!» sussurrò Ron disgustato fermandosi davanti alla Signora Grassa, che sonnecchiava tranquilla con la testa contro la cornice. «È una squilibrata! Vai dalla McGranitt, dille qualcosa!»

«No» ribatté subito Harry. «Non le darò la soddisfazione di sapere che è riuscita nel suo intento».

« Riuscita? Non puoi permettere che la passi liscia!»

«Non so quanto potere ha la McGranitt su di lei» disse Harry.

«Silente, allora, dillo a Silente!»

«No» rispose Harry in tono piatto.

«Perché no?»

«Ha già abbastanza grane a cui pensare». Ma non era quello il vero motivo: Harry non aveva intenzione di andare a chiedere aiuto a Silente quando Silente non gli rivolgeva la parola da giugno.

«Be’, secondo me dovresti» insisté Ron, ma fu interrotto dalla Signora Grassa, che li aveva osservati sonnacchiosa e ora sbottò: «Volete dirmi la parola d’ordine o devo stare sveglia tutta la notte ad aspettare che finiate di cianciare?»

* * *

Il venerdì cominciò imbronciato e zuppo come il resto della settimana. Harry guardò automaticamente verso il tavolo degli insegnanti quando entrò nella Sala Grande, ma senza alcuna vera speranza di vedere Hagrid, e rivolse subito la mente ai problemi più pressanti che lo affliggevano, come la pila di compiti ormai simile a una montagna e la prospettiva di un’altra punizione della Umbridge.

Due cose sostennero Harry quel giorno. Il pensiero che era quasi la fine della settimana; e il fatto che, per quanto terribile dovesse essere l’ultimo castigo con la Umbridge, dalla finestra del suo ufficio si vedeva da lontano il campo di Quidditch, e con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a scorgere qualcosa del provino di Ron. Raggi di luce piuttosto deboli, era vero, ma Harry era grato per qualunque cosa potesse illuminare la sua attuale oscurità; non aveva mai passato una prima settimana di scuola peggiore a Hogwarts.

La sera alle cinque bussò alla porta dell’ufficio della professoressa Umbridge per quella che sperava essere l’ultima volta, e gli fu detto di entrare. La pergamena bianca era pronta per lui sul tavolino coperto di pizzo, la piuma nera affilata lì accanto.

«Sa che cosa fare, signor Potter» disse la Umbridge, sorridendogli dolcemente.

Harry prese la piuma e guardò oltre la finestra. Se spostava la sedia di appena qualche centimetro a destra… Con la scusa di avvicinarsi al tavolo, ci riuscì. Ora vedeva da lontano la squadra di Quidditch di Grifondoro che volteggiava su e giù per il campo e una mezza dozzina di sagome nere ai piedi delle tre alte porte, evidentemente in attesa del loro turno per fare i provini. Era impossibile dire quale fosse Ron da quella distanza.

Non devo dire bugie, scrisse Harry. Il taglio sul dorso della mano destra si aprì e riprese a sanguinare.

Non devo dire bugie. Il taglio si fece più profondo; pungeva e bruciava.

Non devo dire bugie. Il sangue gli colò lungo il polso.

Azzardò un’altra occhiata fuori dalla finestra. Chiunque difendesse la porta in quel momento stava facendo un pessimo lavoro. Katie Bell segnò due volte nei pochi secondi in cui Harry si arrischiò a guardare. Sperando intensamente che il Portiere non fosse Ron, Harry posò di nuovo lo sguardo sulla pergamena macchiata di sangue.

Non devo dire bugie.

Non devo dire bugie.

Guardava in su tutte le volte che pensava di poter rischiare: quando sentiva il grattare della piuma della Umbridge o l’aprirsi di un cassetto della scrivania. La terza persona a sottoporsi alla prova fu decisamente brava, la quarta fu terribile, la quinta schivò un Bolide benissimo ma poi si lasciò sfuggire una parata facile. Il cielo diventava più scuro e Harry dubitò di riuscire a vedere la sesta e la settima prova.

Non devo dire bugie.

Non devo dire bugie.

La pergamena luccicava di gocce di sangue e il dorso della mano gli bruciava di dolore. Quando Harry alzò di nuovo lo sguardo, era calata la notte e il campo di Quidditch non si distingueva più.

«Vediamo se ha capito il messaggio, d’accordo?» disse la voce stucchevole della Umbridge un’ora dopo.

Avanzò verso di lui e tese le corte dita coperte di anelli per prendergli il braccio. E quando lo afferrò per osservare le parole ora incise nella sua pelle, il dolore esplose, non sul dorso della mano, ma nella cicatrice sulla fronte. Nello stesso momento, Harry avvertì una sensazione del tutto insolita attorno al diaframma.

Liberò il braccio dalla presa e balzò in piedi, fissandola. Lei gli restituì lo sguardo, con un sorriso che le stirava la bocca larga e molle.

«Sì, fa male, vero?» chiese, soave.

Lui non replicò. Il cuore gli batteva forte e rapido. Stava parlando della sua mano o sapeva che cosa aveva appena sentito sulla fronte?

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