«Non mi ha dato l’inchiostro» osservò.
«Oh, non le servirà l’inchiostro» disse la professoressa Umbridge, con una vaghissima punta di ilarità nella voce.
Harry posò la punta della piuma sul foglio e scrisse: Non devo dire bugie.
Emise un gemito di dolore. Le parole erano comparse sulla pergamena in quello che sembrava scintillante inchiostro rosso. Nello stesso tempo, erano apparse anche sul dorso della mano destra di Harry, incise sulla sua pelle come tracciate da un bisturi: mentre lui era ancora intento a fissare il taglio luccicante, la pelle si richiuse, lasciando il punto dove si era aperta appena più rosso di prima, ma liscio.
Harry guardò la Umbridge. Lei lo osservava, la larga bocca da rospo stirata in un sorriso.
«Sì?»
«Niente» disse Harry piano.
Tornò a guardare la pergamena, vi posò di nuovo la piuma, scrisse Non devo dire bugie, e sentì una seconda volta il dolore lacerante sul dorso della mano; di nuovo, le parole si erano incise nella sua pelle; di nuovo, si rimarginarono dopo qualche secondo.
E andò avanti così. Più e più volte Harry scrisse le parole con quello che ben presto capì non essere inchiostro, ma il suo stesso sangue. E più e più volte le parole furono incise sul dorso della sua mano, si rimarginarono, e riapparvero non appena ebbe posato di nuovo la piuma sulla pergamena.
Il buio cadde oltre la finestra della Umbridge. Harry non chiese quando avrebbe potuto smettere. Non guardò nemmeno l’orologio. Sapeva che lei lo stava osservando in cerca di segnali di debolezza e non voleva mostrarne alcuno, nemmeno se avesse dovuto restare lì fino al mattino a squarciarsi la mano con quella piuma…
«Venga qui» disse lei, dopo quelle che parvero ore.
Harry si alzò. La mano era tutta una puntura dolorosa. Quando la guardò, vide che la ferita si era chiusa, ma la pelle era rosso vivo.
«La mano» disse lei.
Lui la tese. Lei la prese nella sua. Harry represse un brivido quando lo toccò con le grosse dita tozze cariche di vecchi orribili anelli.
«Mmm, direi che non ho fatto ancora molta impressione» concluse, sorridendo. «Be’, dovremo riprovare domani sera, vero? Può andare».
Harry uscì dal suo ufficio senza una parola. La scuola era praticamente deserta; era di sicuro mezzanotte passata. Risalì lentamente il corridoio, poi, quando ebbe voltato l’angolo e fu sicuro che lei non lo sentisse, prese a correre.
* * *
Non aveva avuto tempo di esercitarsi negli Incantesimi Evanescenti, non aveva scritto un solo sogno nel diario, non aveva finito il disegno dell’Asticello e non aveva nemmeno fatto i temi. La mattina dopo saltò la colazione per scribacchiare un paio di sogni inventati per Divinazione, alla prima ora, e fu sorpreso di trovare uno scarmigliato Ron a tenergli compagnia.
«Come mai non li hai fatti ieri sera?» chiese Harry, mentre Ron fissava disperatamente la sala comune in cerca d’ispirazione. Ron, che era profondamente addormentato quando Harry era tornato nel dormitorio, borbottò di aver fatto qualcos’altro, si chinò sulla sua pergamena e scarabocchiò qualche parola.
«Questo basterà» stabilì, chiudendo il diario con un tonfo. «Ho detto che ho sognato che mi compravo un paio di scarpe nuove, non può cavarne niente di strano, no?»
Si affrettarono a raggiungere insieme la Torre Nord.
«Com’è stata la punizione con la Umbridge? Che cosa ti ha fatto fare?»
Harry esitò per una frazione di secondo, poi rispose: «Scrivere delle frasi».
«Non è poi così male, allora, eh?» disse Ron.
«No».
«Ehi… m’ero dimenticato… ti ha lasciato libero per venerdì?»
«No» rispose Harry.
Ron gemette, solidale.
Fu un’altra brutta giornata per Harry: riuscì uno dei peggiori a Trasfigurazione, visto che non si era affatto esercitato negli Incantesimi Evanescenti. Dovette rinunciare all’ora di pranzo per completare il disegno dell’Asticello e nel frattempo le professoresse McGranitt, Caporal e Sinistra diedero loro altri compiti, che non aveva alcuna speranza di finire quella sera a causa della seconda punizione con la Umbridge. A coronare il tutto, Angelina Johnson lo cercò di nuovo a cena e quando seppe che non sarebbe riuscito ad andare ai provini, gli disse che non era affatto contenta del suo comportamento e che si aspettava che chi desiderava continuare a far parte della squadra mettesse gli allenamenti al di sopra degli altri impegni.
«Sono in castigo!» urlò Harry ad Angelina, che si allontanò a grandi passi. «Credi che preferisca restare chiuso in una stanza con quella vecchia rospa invece di giocare a Quidditch?»
«Almeno sono solo frasi» disse Hermione per consolarlo, mentre Harry si lasciava ricadere sulla panca e guardava il pasticcio di carne e rognone, di cui non aveva più molta voglia. «Non è una punizione così tremenda, davvero…»
Harry aprì la bocca, la richiuse e annuì. Non sapeva bene perché non voleva dire a Ron e Hermione che cosa succedeva di preciso dalla Umbridge: sapeva solo che non voleva vedere i loro sguardi di orrore; avrebbero fatto sembrare la cosa ancora peggiore e quindi più difficile da affrontare. E poi intuiva vagamente che quella era una faccenda tra lui e la Umbridge, una battaglia privata di volontà, e non intendeva darle la soddisfazione di sapere che si era lamentato.
«Non posso credere a quanti compiti abbiamo» disse Ron abbacchiato.
«Be’, perché non hai fatto niente ieri sera?» gli chiese Hermione. «Dov’eri?»
«Io ero… avevo voglia di fare una passeggiata» rispose Ron, evasivo.
Harry ebbe la chiara impressione di non essere il solo a nascondere qualcosa.
* * *
Il secondo castigo fu orrendo come il precedente. La pelle sul dorso della mano di Harry si irritò più in fretta e ben presto fu rossa e infiammata. Harry pensò che non sarebbe riuscita a rimarginarsi del tutto ancora a lungo. Ben presto la ferita sarebbe rimasta incisa sulla sua mano e la Umbridge forse sarebbe stata soddisfatta. Non si lasciò sfuggire nemmeno un gemito di dolore, tuttavia, e dal momento in cui entrò nella stanza a quando fu congedato, di nuovo dopo mezzanotte, non disse altro che «buonasera» e «buonanotte».
La situazione dei suoi compiti però era ormai disperata, e quando tornò alla sala comune di Grifondoro non andò a letto, pur essendo sfinito, ma aprì i libri e cominciò il tema per Piton sulla pietra di luna. Quando ebbe terminato erano le due e mezza. Sapeva di aver fatto un lavoro pessimo, ma non ci poteva far niente; se non avesse consegnato qualcosa, sarebbe stato punito anche da Piton. Poi buttò giù delle risposte alle domande assegnate dalla professoressa McGranitt, mise insieme qualcosa sul corretto trattamento degli Asticelli per la professoressa Caporal e barcollò a letto, dove crollò sulle coperte vestito di tutto punto e si addormentò all’istante.
* * *
Il giovedì passò in una bruma di stanchezza. Pure Ron sembrava molto assonnato, anche se Harry non capiva perché. Il terzo castigo di Harry trascorse come gli altri due, tranne per il fatto che dopo due ore le parole Non devo dire buge non si cancellarono più dal dorso della mano di Harry, ma vi rimasero incise, colando goccioline di sangue. Sentendo che la piuma appuntita aveva smesso per un momento di grattare sulla pergamena, la professoressa Umbridge alzò lo sguardo.
«Ah» disse dolcemente, facendo il giro della scrivania per osservare la mano. «Bene. Dovrebbe servirle come monito, vero? Per stasera può andare».
«Devo sempre tornare domani?» chiese Harry, raccogliendo la borsa con la mano sinistra invece che con la destra dolorante.
«Oh, sì» rispose la professoressa Umbridge, col suo ampio sorriso. «Sì, credo che possiamo imprimere il messaggio un po’ più a fondo con un’altra sera di lavoro».
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