J.K. Rowling - Harry Potter e l'Ordine della Fenice

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Harry Potter e l'Ordine della Fenice: краткое содержание, описание и аннотация

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Il quarto volume delle avventure di Harry Potter ci ha lasciato con il fiato sospeso: Lord Voldemort è tornato. Che cosa succederà ora che l’Oscuro Signore è di nuovo in pieno possesso dei suoi terrificanti poteri? Quanta morte e distruzione seminerà nel tentativo di riprendere il dominio dei mondo? Sono le stesse domande che si pone Harry Potter, disperatamente segregato — come tutte le estati — nella casa dei suoi zii Babbani, lontano dal mondo magico che gli appartiene. Ma qualcosa è cambiato anche in lui. Ormai quindicenne, lo ritroviamo divorato dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’ansia di ribellione tipiche della sua età. In uno dei libri più attesi nella storia della letteratura, J.K. Bowling non cessa di stupirci. Tessendo un’altra stupefacente trama, riesce questa volta a dar voce alle inquietudini dell’adolescenza, ad arricchire il suo già mirabolante universo di nuove creature e nuovi indimenticabili personaggi, e anche a metterci in guardia contro la stupidità del potere e di chi lo usa per combattere il talento, il coraggio, la fantasia e la diversità.

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Andò avanti così per tre giorni interi. Harry traboccava di un’energia irrequieta che lo rendeva incapace di concentrarsi su alcunché, e in quei momenti marciava su e giù per la stanza, furioso con tutti coloro che lo lasciavano lì a dibattersi in quel pasticcio; oppure era invaso da una sonnolenza così profonda che poteva stare disteso sul letto per un’ora di fila, a fissare inebetito il vuoto, dolorante di terrore al pensiero dell’udienza al Ministero.

Se avessero votato contro di lui? Se l’avessero davvero espulso e avessero spezzato la sua bacchetta? Che cos’avrebbe fatto, dove sarebbe andato? Non poteva tornare a vivere a tempo pieno con i Dursley, non ora che conosceva l’altro mondo, quello a cui apparteneva davvero. Avrebbe potuto trasferirsi a casa di Sirius, come il suo padrino aveva suggerito un anno addietro, prima di essere costretto a nascondersi dal Ministero? A Harry sarebbe stato concesso di vivere là da solo, visto che era ancora minorenne? O qualcun altro avrebbe deciso per lui la sua destinazione? La violazione dello Statuto Internazionale di Segretezza era così grave da farlo finire in una cella di Azkaban? Tutte le volte che gli si presentava questo pensiero, Harry invariabilmente scivolava fuori dal letto e ricominciava a camminare su e giù come un’anima in pena.

La quarta sera dopo la partenza di Edvige, Harry era in una delle sue fasi apatiche, disteso a fissare il soffitto, la mente esausta quasi vuota, quando suo zio entrò nella stanza. Harry levò lentamente lo sguardo su di lui. Zio Vernon sfoggiava il suo completo migliore e un’espressione di enorme compiacimento.

«Usciamo» disse.

«Scusa?»

«Noi… voglio dire, tua zia, Dudley e io usciamo».

«Bene» rispose Harry tetro, e tornò a fissare il soffitto.

«Non devi uscire dalla tua stanza mentre siamo fuori».

«D’accordo».

«Non devi toccare il televisore, lo stereo e nessuna delle cose di nostra proprietà».

«Va bene».

«Non devi rubare cibo dal frigo».

«D’accordo».

«Chiudo la porta a chiave».

«Fallo».

Zio Vernon gli scoccò un’occhiata obliqua, chiaramente insospettito da quella mansuetudine, poi uscì rumorosamente dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Harry sentì la chiave girare nella toppa e i passi pesanti di zio Vernon che scendevano le scale. Qualche minuto dopo udì uno sbattere di portiere, un rombo di motore e l’inconfondibile stridore dell’auto che percorreva il vialetto.

Non ebbe particolari reazioni all’idea che i Dursley uscissero. Che fossero o non fossero in casa, per lui non faceva alcuna differenza. Non riusciva nemmeno a raccogliere l’energia necessaria per alzarsi e accendere la luce. La stanza divenne via via più buia attorno a lui. Giaceva ascoltando i rumori della notte entrare dalla finestra sempre aperta, in attesa del momento benedetto del ritorno di Edvige.

La casa vuota scricchiolava attorno a lui. I tubi gorgogliavano. Harry rimase lì disteso in una sorta di torpore, senza pensare a niente, sospeso nell’infelicità.

Poi udì con grande chiarezza un frastuono in cucina, di sotto.

Scattò su a sedere, e ascoltò attentamente. I Dursley non potevano essere di ritorno, era troppo presto, e comunque non aveva sentito la loro auto.

Ci fu silenzio per qualche secondo, poi voci.

Ladri, pensò, lasciandosi scivolare dal letto, ma un istante dopo gli venne in mente che i ladri avrebbero parlato a voce bassa, e chiunque si aggirasse in cucina certo non si dava la pena di farlo.

Afferrò la bacchetta dal comodino e rimase lì in piedi davanti alla porta della camera, ascoltando con tutto se stesso. Un attimo dopo sussultò, mentre dalla serratura veniva il rumore di un forte scatto e la porta si spalancava.

Harry rimase immobile a guardare il buio pianerottolo oltre la porta aperta, tendendo le orecchie in cerca di altri rumori, ma non ne vennero. Esitò un momento, poi uscì rapido e silenzioso dalla camera e andò in cima alle scale.

Il cuore gli balzò in gola. C’erano delle persone nell’ingresso denso d’ombre là sotto, stagliate contro la luce del lampione che filtrava dalla porta di vetro; erano otto o nove, e tutte, per quello che poteva vedere, guardavano lui.

«Giù la bacchetta, ragazzo, prima di cavare un occhio a qualcuno» disse una voce bassa e ringhiosa.

Il cuore di Harry batteva incontrollabile. Conosceva quella voce, ma non abbassò la bacchetta.

«Professor Moody» disse, incerto.

«Professore non saprei» brontolò la voce, «non è che abbia insegnato molto, vero? Vieni giù, vogliamo vederti bene».

Harry abbassò appena la bacchetta ma non allentò la presa e non si mosse. Aveva ottime ragioni per essere sospettoso. Aveva appena trascorso nove mesi in compagnia di colui che credeva essere Malocchio Moody solo per scoprire che non era affatto Moody, ma un impostore; di più, un impostore che aveva cercato di ucciderlo prima di essere smascherato. Non fece in tempo a decidere sul da farsi, che una seconda voce un po’ roca salì fluttuando per le scale.

«È tutto a posto, Harry. Siamo venuti per portarti via».

Il cuore di Harry fece un balzo. Conosceva anche quella voce, benché non la sentisse da più di un anno.

«Professor Lupin» disse, incredulo. «È lei?»

«Perché stiamo tutti al buio?» domandò una terza voce del tutto ignota, una voce di donna. « Lumos ».

La punta di una bacchetta si accese, illuminando l’ingresso di luce magica. Harry batté le palpebre. Le persone di sotto si accalcavano ai piedi delle scale e guardavano in su, verso di lui; alcune tendevano il collo per vedere meglio.

Remus Lupin era il più vicino. Anche se era ancora piuttosto giovane, Lupin aveva l’aria stanca e un po’ malata; aveva più capelli grigi di quando Harry si era congedato da lui e la sua veste era più rappezzata e frusta che mai. Tuttavia rivolse un gran sorriso a Harry, che cercò di ricambiarlo, nonostante il suo sconcerto.

«Oooh, è proprio come lo immaginavo» disse la strega che teneva alta la bacchetta accesa. Sembrava la più giovane del gruppo; aveva il viso pallido, a forma di cuore, occhi scuri scintillanti e corti capelli spinosi di un’intensa sfumatura di viola. «Ciao, Harry!»

«Sì, ora capisco che cosa intendi, Remus» disse un mago nero calvo appena un passo indietro. Aveva una voce profonda e calma e portava un anello d’oro a un orecchio. «È identico a James».

«A parte gli occhi» precisò un mago con la voce affannosa e i capelli d’argento in fondo al gruppo. «Gli occhi di Lily»,

Malocchio Moody, che aveva lunghi capelli brizzolati e un grosso pezzo di naso mancante, strizzò sospettoso gli occhi scompagnati. Un occhio era piccolo, scuro e lucente, l’altro grande, rotondo e blu elettrico: l’occhio magico che poteva vedere attraverso le pareti, le porte e la parte posteriore della sua stessa testa.

«Sei proprio sicuro che sia lui, Lupin?» borbottò. «Sarebbe un bell’affare se portassimo via un Mangiamorte con le sue sembianze. Dovremmo chiedergli qualcosa che solo il vero Potter può sapere. A meno che qualcuno non abbia con sé un po’ di Veritaserum…»

«Harry, che forma assume il tuo Patronus?» gli chiese Lupin.

«Un cervo» rispose Harry, nervoso.

«È lui, Malocchio» disse Lupin.

Sentendosi addosso gli sguardi di tutti, Harry scese le scale, infilando la bacchetta nella tasca di dietro.

«Non mettere lì la bacchetta, ragazzo!» ruggì Moody. «E se si accende? Maghi migliori di te hanno perso le chiappe, sai?»

«Chi conosci che abbia perso una chiappa?» chiese la donna coi capelli viola, incuriosita.

«Non badarci, pensa solo a tenere la bacchetta lontana dalla tasca di dietro!» ringhiò Malocchio. «Elementari norme di sicurezza per bacchette, ah, nessuno ci pensa più». Zoppicò affaticato verso la cucina. «E comunque l’ho visto succedere» aggiunse irritato, mentre la donna alzava gli occhi al soffitto.

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