«Te l’avevo detto», disse la voce della Perla Nera, dietro di lui. «Lo sapevo, che sarebbe venuto qui.»
Ducon si girò di scatto, dando le spalle al buio, e alzò la spada. La donna si era rivolta a Camas Erl, il quale lo guardava con bruciante curiosità, come se non lo considerasse umano bensì una forza innominabile di cui non si potevano prevedere i movimenti. La Perla Nera, che continuava a perdere pezzi come se avesse messo insieme il suo corpo con dozzine di frammenti di cadavere male incollati, lo fissava con astio.
«Lui ha disegnato questa porta molte volte», continuò la donna. «Qualcosa lo attirava qui. Disegna per noi, Ducon. Disegna una porta per noi, al suolo. Tu hai quel carboncino. Lo porti sempre con te.»
Il grande palazzo tremò. La città visibile oltre i vetri polverosi della finestra si annebbiò, poi tornò di nuovo nitida. Lì, in quell’antica stanza da cui lo sguardo spaziava sul dedalo di stradicciole contorte, e sui moli che marcivano sotto il sole abbagliante in riva al mare, Ducon sentì che il cuore gli cedeva.
«Questo non è un posto per voi», le disse, stancamente. «È qui che Lydea e Kyel sono morti. Credete forse di poter andare là dentro e tornare alla vita?»
«Disegna una porta.»
«La porta c’è già, ed è aperta.»
«Ne sei sicuro?» domandò Camas Erl, scrutandolo. «Tu hai visto posti del genere tutta la vita. Li sai riconoscere. Cosa ti attira fino a essi?» Ducon non rispose, con la spada ancora sollevata come a proteggere l’ingresso di un altro e più tranquillo mondo dove i suoi fantasmi erano andati a vivere. «Sono ombre», proseguì il cortigiano. «Tu disegni ombre. La città-ombra.»
«Sì», rispose Ducon, «ombre. La città ne è piena.»
«Come si arriva là?» Camas fece un passo verso di lui, eccitato. La spada si alzò a fermarlo. Domina Pearl sputò saliva verde e l’arma volò via dalle mani del giovane, mezza fusa, andando a rotolare in fondo alla stanza.
«Forse io sto morendo», lo avvertì, «ma ho ancora i miei poteri. Per te è la fine. Morirai da questa parte della soglia, oppure dall’altra. Puoi scegliere.»
«Può darsi, ma non disegnerò nessuna porta per voi.»
«Sì, lo farai, invece», disse dolcemente Camas. «Perché per tutta la vita hai disegnato porte per trovare questa. E sai che non puoi morire senza sapere se avevi ragione nel sospettare che se quella è la porta, la soglia tra i mondi, tu sei la chiave. Kyel e Lydea sono vivi o morti? Potrebbe esser vera una qualsiasi di queste due cose, là oltre quel buio. Disegna la porta-ombra lì per terra, e scoprilo.»
Ducon sentì che una porta si apriva da qualche parte, dentro i suoi pensieri; attraverso quella soglia vide se stesso. Il palazzo si scosse ancora, facendoli barcollare. Lui se ne accorse come da grande distanza, anche se aveva perso l’equilibrio ed era caduto in ginocchio. Restò in quella posizione, lasciando una ditata di sangue sul pavimento. Non rispose, ma tirò fuori di tasca il carboncino e cominciò a tracciare il contorno di una porta davanti all’altra, dove l’ombra di quel rettangolo sarebbe caduta se il buio avesse potuto gettare un’ombra.
Mentre disegnava ripensò agli strani posti, agli inaspettati vicoli, alle tortuose stradicciole che aveva visitato. I disegni e i vagabondaggi di una vita l’avevano portato a quel momento, inginocchiato lì ai piedi della Perla Nera, per darle l’ultimo disegno che avrebbe mai fatto. Lei e Camas avevano concepito l’idea della porta-ombra; a lui non sarebbe mai venuta in mente. Ma era stato lui, con le sue misteriose compulsioni, col suo occhio per ciò che era oscuro, ambiguo, paradossale nelle loro vite, era stato lui col suo carboncino a condurli a quella conclusione. Forse Lydea era saltata nel vuoto e morta oltre quella porta scura. Ma la Perla Nera voleva un’altra porta: l’ombra di quella porta, aperta alla luce.
Le dita della sua mano destra diventarono nere, spargendo carbone sull’ombra. L’unico punto su cui non lo passò fu dove appoggiava l’altra sua mano, la cui impronta perfetta rimase chiara sul rettangolo nero nel punto dove poteva esserci la serratura. Questo lo fece perché sperava che Domina Pearl gli permettesse di essere lui ad aprire quella porta.
Aveva visto giusto. Non appena la forma sul pavimento fu piena di tenebra e il suo carboncino esitò, non sapendo dove metterne altra, Ducon sentì alla gola la lama della spada che lo costringeva ad alzarsi. La Perla Nera aveva chiamato le sue guardie, ed esse lo circondarono, spiando con i loro folli occhi privi di emozione ogni suo gesto.
«Scegli, nobile Ducon», disse la donna. «La morte immediata qui, oppure la lunga caduta verso l’ignoto… o forse, chissà, la salvezza in una cantina del palazzo, se sarà quello il posto che ti aspetta oltre la soglia.»
Alzandosi, lui si voltò a guardare il buio, per non portare con sé nell’oblio il ricordo del viso di lei. Il pavimento si contorse come se il palazzo volesse strapparsi via dalle fondamenta e allontanarsi dalla città condannata. L’oscillazione gettò di nuovo Ducon in ginocchio sul carbone. La sua mano sinistra cercava soltanto un punto d’appoggio quando lui la protese, disperato, a incontrare la sua ombra chiara su quella porta.
Essa si aprì.
La luce fiottò intorno a lui, abbagliandolo. Sentì Camas gridare di stupore. La Perla Nera sbottò qualcosa. Un insostenibile raggio di fulgore argenteo avvolse Ducon, e sotto la luminosa energia su cui si trovò inginocchiato non c’era niente che lui potesse vedere o capire, a parte il fatto che si trattava dell’opposto dell’ombra.
Poi una mano lo afferrò, tirandolo fuori dalla luce. Sbatté le palpebre per scacciare il bagliore, e vide se stesso.
E non se stesso.
Per la prima volta Ducon poté vedere lo scintillante flusso di potere che seguiva come un mantello l’uomo liberato dal suo carboncino in una taverna di Ombria. Era anche dentro i suoi occhi argentei, e dava loro una sfumatura più scura. Il giovane cercò di parlare ma non poté. L’uomo lo studiava in silenzio. Il tempo e la sofferenza gli avevano scavato rughe intorno alla bocca, lasciandogli ombre di stanchezza nelle orbite. Teneva ancora Ducon per un braccio, e le sue dita lo strinsero un poco, quando disse: «Non somigli per niente a tua madre».
«Somiglio a te», sussurrò lui.
«Puoi vedere come sono.»
«Sì.» Lui smise di deglutire. «Ora ti vedo. Prima non ci riuscivo bene.»
«Tu mi hai disegnato, in città. Ma creato da te, io ero l’ombra di me stesso. Essendo polvere di carbone non potevo parlare. Potevo solo vegliare su di te.»
«Vegliare su di me», annuì Ducon. Si accorse che intorno a loro altre figure, uscite da altri disegni, avevano riempito la stanza e si stavano battendo con le guardie affatturate. La porta-ombra, accesa come un sole, aveva illuminato l’impenetrabile nero dinanzi a essa. Sembrava che ne uscisse un esercito, accompagnato dall’odore della pioggia e dell’erba, e dall’aspro gracchiare dei corvi. Tenendogli una mano su un braccio, suo padre protendeva all’indietro una spada, per guardargli le spalle. Ducon udiva i rumori del combattimento come da lontano; non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto del mago.
«Mia madre ti ha ritrovato?» gli domandò. «O tu hai trovato lei?»
«Tua madre passò oltre la soglia per cercarmi. Come te, era stata attirata da questa porta.»
Una mano di Ducon si strinse bruscamente sul polso del padre, mescolandosi con la sua aura. «E sopravvisse?»
«Sopravvisse tanto da concepirti e darti alla luce. Ciò che le accadde dopo, io non l’ho mai saputo. Lei fece ritorno alla soglia, per mostrarti a me. Poi non la rividi più, anche se feci di tutto per ritrovarla… finché sentii che era morta. Sapevo che tu vivevi, nel mondo di lei, ma finché non mi hai disegnato io non avevo mai rivisto il tuo viso.»
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