Ducon tornò inaspettatamente alla vita. Le sue mani, ancora strette alla grata caduta, si abbassarono. Si guardò attorno tra le rovine della stanza e vide Mag, seminascosta da uno scaffale crollato. Poi una porta sbatté da qualche parte, oltre i muri, e lui s’irrigidì di nuovo. Tutti loro stavano cercando di vedere oltre il visibile.
La voce risuonò ancora, scrosciante come un’onda sulla scogliera. «Ridammi mia figlia!»
Il pollice raggrinzito della Perla Nera cadde, mentre si voltava con un grido furibondo. «Prenditela!»
Detto questo, svanì. Camas Erl, urlando qualcosa d’incoerente, per un poco oscillò tra storia e magia, poi la seguì in quella via di fuga che conosceva.
La falena volò fuori dai capelli di Mag, atterrò sul pavimento e si trasformò in Faey.
La maga aveva un volto improvvisato alla meglio, con la pelle iridescente e un occhio più piccolo dell’altro. Si scostò una ciocca di capelli color delle ali della falena, e toccò l’anello di ferro al polso di Mag. La catena si aprì; il braccio intorpidito ricadde. Debole come cera sciolta, la ragazza non poté muoversi da dove stava. La falena della giara continuava, nella sua mente, a trasformarsi in Faey, che era salita dal mondo di sotto per salvarla. Lacrime brucianti come il fuoco la accecarono, bagnandole il viso, e fuoco divennero le parole che cercavano di salirle in gola, finché non seppe più se il suo corpo fosse cera, o carne, o fiamma.
Sentì la voce di Ducon, rauca per la rabbia e la sofferenza. «Dove sono andati? Voglio vederla morta. Mi aiuterai?»
Faey sedette sul pavimento e mise un braccio intorno alle spalle di Mag. «Domina Pearl è già morta, dovunque vada», disse a Ducon. «Tu l’hai uccisa. Il suo corpo non può ricrescere senza il letto, e non avrà il tempo di farsene un altro prima di averne bisogno. Credo che lei sia un cadavere fatto resuscitare da una muffa, o da un fungo, qualcosa cresciuto in un terreno malato.»
«Le sue guardie hanno riferito che Lydea e Kyel sono morti, o scomparsi.» Il volto del giovane era contratto per la preoccupazione. «Per favore, tu puoi dirmi dove sono?»
«Da quanto ho visto io, sono usciti da una porta. Quella che tu hai disegnato molte volte, con l’arcobaleno sul montante. È là che devi cercarli. Cosa c’è oltre quella soglia? Tu lo sai meglio di me.»
Lui la guardò, incerto, tormentato da quello stesso interrogativo, ma non seppe rispondere. Un breve ansito gli scosse il petto, e poi scomparve come Camas Erl, oltre l’invisibile uscita della stanza della Perla Nera.
Mag si chiese se fosse andato fuori oppure dentro. «Dovremmo seguirlo», disse, a disagio. «Aiutarlo. Lei non è ancora morta, e le sue guardie sono dappertutto.»
«Posso tenerlo d’occhio anche da qui», la rassicurò Faey. «Io non ho bisogno di tutti quegli specchi per vedere.»
Mag si asciugò gli occhi con una manica. «Io ero venuta qui per cercare la mia vera madre in un carboncino da disegno. Ma non credo che vedere il suo viso mi avrebbe emozionato come vedere il tuo. Qualunque viso tu abbia deciso di metterti.»
Faey modificò le dimensioni dei suoi occhi e annuì, pensosamente. «In vita mia ho fatto tanti sbagli quante volte ho cambiato volto. Oggi abbiamo imparato qualcosa, tu e io. Quando ero convinta di sapere tutto ciò di cui avevo bisogno, tu mi hai insegnato a guardare oltre la magia, dentro il mio cuore.»
«Puoi insegnarmi a vedere senza gli occhi?»
«Hai già visto Ducon in quel modo», le ricordò lei. Ma si chinò a raccogliere un pezzo di specchio. «Ecco, usa questo. Funziona ancora. Pensa al tuo viso.»
Mag richiamò alla mente il volto di Ducon e guardò lo specchio. La cosa nelle fondamenta fece un altro immenso passo, che scosse l’intero grande edificio fino al tetto. Mag sussultò. Lo specchio tremò tra le sue mani, e l’immagine che vi si era formata ondeggiò come nell’acqua smossa. I muri sembrarono girarsi con l’interno all’esterno.
«Io credevo», disse la ragazza, preoccupata, «che fossi tu a fare questo sconquasso, là fuori. Che cos’è?»
«Sta succedendo», rispose oscuramente Faey. «Questo è un buon posto per aspettare che sia finito. È fuori dal tempo, così potrai ricordare meglio, dopo.»
«Aspettare che sia finito cosa? Ricordare cosa? Che cosa sta succedendo, di preciso, là fuori?»
La maga scrollò le spalle, corrugando le sopracciglia. «Non ne sono sicura. Ma sembra che questo succeda tutte le volte che io salgo dal sottomondo.»
Mag la guardò, ammutolita. La stanza segreta ruotava come una stella in un planetario, seguendo il suo immutabile sentiero attraverso la notte.
Ducon dovette lottare per aprirsi la strada nella fessura che era la porta invisibile della Perla Nera. All’interno del palazzo, perfino l’aria negli interstizi tra le assi e le pietre sembrava schiacciata da una forza misteriosa. Respinse con fermezza il timore che le travi crollassero e s’insinuò tra i mattoni mentre lottavano per chiudersi, in quello stretto corridoio temporale che comunicava con la camera segreta della donna.
Abbandonando là tutte le sue cose, lei lo aveva lasciato in una trappola. La porta alla fine di quel corridoio stava diventando sempre più piccola, con strani angoli che si chiudevano su cieche iridi e bordi in fusione. Ducon la raggiunse giusto prima che fosse troppo piccola per consentire il passaggio.
Quando emerse da quella piccola tasca temporale ebbe la sorpresa di sentire che il pavimento tremava sotto i suoi piedi. Dunque, oltre l’attacco della maga, stava accadendo qualcos’altro. L’antico edificio si contorceva e mugolava come un animale che si era svegliato in preda agli incubi. Uscì dall’anticamera nei passaggi segreti dove la Perla Nera aveva costruito la porta e quello che vide lo indusse a fermarsi, deglutendo a vuoto. Da lì era passata la morte. Nel corridoio giaceva suo cugino coperto di sangue. Si vedeva ancora il graffio che la sua spada gli aveva lasciato sul collo. Ducon raccolse l’arma dalle sue dita fredde e tese le orecchie. Ma nei corridoi non si udiva altro che il tintinnio dei prismi di cristallo di un grande candeliere. In fretta corse via, verso il cuore del palazzo.
Non si aspettava che sarebbe stato attaccato dalle guardie della Perla Nera. La prima che si trovò davanti lo aggredì subito, e per poco non riuscì ad affondargli la spada nella spalla. Ducon dovette così constatare che la reggente, non avendo più niente da perdere, aveva ordinato agli uomini che teneva sotto incantesimo di uccidere anche lui. Si difese con la forza della disperazione, ma la sua immagine, trasmessa da quegli occhi privi di mente, attirò altre guardie. Il giovane udì le loro grida in qualche corridoio non molto lontano, e il rumore di passi in corsa sui pavimenti polverosi. Il palazzo si scrollò ancora. I vecchi candelabri appesi ai muri si accesero all’improvviso. Ducon si chinò per evitare un fendente diretto al volto e sentì uno stupefacente odore di viole.
Ma era un sogno, una favola da bambini. La soglia attraversata da Lydea l’aveva portata alla morte; il silenzioso individuo col suo volto, imprevedibilmente uscito dal passato, era solo un fantasma. Lui aveva visto abbastanza spettri in casa della maga da saperne riconoscere un altro. Il soffitto sopra di lui cigolò; una trave che prima aveva ceduto si era raddrizzata tornando integra. Distratto da quella circostanza, Ducon fu costretto a ricordare che lui ne rischiava una molto sgradevole, quando la spada della guardia gli squarciò una manica spillandogli sangue dal braccio. Balzò indietro. La spada lo mancò, mentre il pavimento sussultava ancora, e la guardia scivolò al suolo. Lui ne approfittò per voltarsi, e fuggì.
Prese le scale più vicine e corse al piano di sopra. Da lì proseguì fino alle antiche soffitte dai tetti che lasciavano passare la pioggia e il vento, dove i piccioni avevano fatto il nido tra le travi. Ora non udiva più le guardie correre lungo i corridoi e spalancare a calci porte chiuse da secoli. Ma sapeva che alla fine lo avrebbero raggiunto, come avevano raggiunto Lydea, e anche lui sarebbe stato costretto a saltare nell’ignoto. Poco dopo trovò la porta con un montante danneggiato e l’altro dipinto con i colori dell’arcobaleno. Era ancora lì. La tenebra oltre la soglia appariva assoluta.
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