E si sollevarono nell’aria, roteando avvinte, unite nuovamente nella faccia. Girarono all’impazzata per la caverna, come un tappo di bottiglia, poi sparirono.
— Ho visto le Sorelle coi miei occhi e sono vivo — disse Timias.
Orem aveva tre sorelle, e tutte avevano un nome, e nulla era mai stato fatto loro che richiedesse una vendetta. E suo figlio senza nome… cosa gli era successo che dovesse essere vendicato?
Orem non capiva, così si volse verso il Cervo.
Sapeva come doveva essere il Cervo: vivo e vestito di carne e di pelliccia. Ma come poteva fare quello , dal momento che non aveva alcun potere dentro di sé, alcuna magia da applicare?
— Il sangue del vecchio funzionerà col Cervo? — chiese Pulce.
— Non lo so — disse Orem. Adesso il sangue era freddo, e capì mentre ungeva le corna e la testa del Cervo che quel sangue non aveva alcun significato.
Tuttavia la vista del sangue sulle corna gli ricordò la visione che aveva avuto sulla punta del corno, nella casa di Vetro-di-Forca. Gli ricordò il contadino che aveva appoggiato la gola sulla lama dell’aratro e aveva versato il proprio sangue per amore del Cervo. Si toccò con la mano la cicatrice, e seppe cosa doveva fare.
Timias non aveva avuto la visione, ma conosceva la cicatrice sulla gola di Orem. Indovinò cosa pensava il Piccolo Re quando si toccò la cicatrice. — No! — gridò, e si lanciò verso la spada. Orem era veloce, ma Timias raggiunse per primo la spada e gliela portò via.
— In nome di Dio, Timias, devo farlo — disse Orem.
— Sei impazzito?
Pulce non capì niente, ma sapeva che Orem voleva la spada e quel bastardo fottuto non voleva dargliela. Fu una cosa semplice mettere fuori combattimento Timias con un calcio nelle palle. Pulce gli prese la spada, mentre Timias si contorceva a terra, e la buttò con l’impugnatura in avanti verso l’amico.
L’avrebbe ripresa altrettanto in fretta, se avesse potuto, ma prima che potesse fare altro che lanciare un grido, come aveva fatto Timias, Orem si passò il taglio della spada sulla gola con tutta la sua forza. Il sangue gli riempì la bocca e gli scorse sul petto, e il dolore era più di quanto avesse mai pensato di poter sopportare.
Boccheggiò; il sangue gli scese nei polmoni; ma non doveva essere invano. Si trascinò verso la testa del Cervo, cercò di sollevarsi per far colare il sangue sulle corna. Non aveva più la forza, ma le braccia gli vennero prese dai due lati. Timias e Pulce lo sollevarono, e le corna vennero bagnate dal suo sangue.
Sotto di sé sentì il calore del corpo del Cervo; lo sentì sollevarsi, sentì la grande schiena e le spalle con i loro muscoli guizzanti, e l’odore della pelliccia. Vide le corna staccarsi dalla roccia che le imprigionava, vide le punte brillare di stelle, come soli, come mondi ingioiellati. E si perse fra le cento corna, girando e girando.
Volò, si sollevò con l’acqua fino al soffitto della cisterna, fino al punto dove si infilava nella roccia per emergere nella Casa dell’Acqua. Era intrappolato nell’acqua e non poteva respirare. Non aveva avuto il tempo di respirare a fondo, perciò doveva sollevarsi, doveva sollevarsi e respirare…
Ma no, sopra di lui c’era il fuoco. Doveva scendere nell’acqua, e sarebbe vissuto. Così si immerse, cercando il fondo. Ma non lo trovò. Nella disperazione respirò grandi boccate d’acqua. Ma non era acqua. Era aria pura. Aprì gli occhi.
Era steso sulla schiena del Cervo, ma non si sentiva debole per il sangue perso. Afferrò le corna, e sollevò la testa dal nido di corna. Poi scivolò giù dalla schiena del Cervo.
— Orem — sussurrò Pulce.
— Mio signore Piccolo Re — disse Timias.
Orem si toccò la gola. La ferita era sparita; la cicatrice era sparita; il suo collo era intatto e nuovo, come era stato prima che avesse avuto la visione del Cervo.
— Ho portato la vera corona — disse. Poteva ancora sentire le corna circondargli la testa, anche se non erano più lì.
— Sei vivo.
I tre guardarono il Cervo battere gli zoccoli sulla roccia. La testa si abbassò; solo allora si resero conto che intendeva caricarli.
— In nome di Dio, non lo sa che gli abbiamo salvato la vita? — gridò Timias.
Non c’era tempo per rispondere. Corsero verso il sentiero che scendeva lungo il fiume, e si voltarono a guardare solo quando furono all’inizio della fenditura nella roccia. Il Cervo era chiaramente visibile, che camminava su e giù sulla piattaforma di roccia, scuotendo la testa.
— Come uscirà? — chiese Pulce.
— Conosce la strada — disse Orem, anche se non sapeva come mai ne fosse così sicuro.
Orem lasciò che Pulce li guidasse, dal momento che aveva già percorso quella strada due volte. Ma come Orem, anche gli altri pensavano più al futuro che a uscire dalla caverna sotto il palazzo. — Cosa si aspettano che facciamo, ora? — chiese Timias.
— Non noi — disse Orem. — Ma sono felice che vogliate condividere il fardello.
— Volevano davvero dire che sei il figlio di Palicrovol? — chiese Pulce.
Orem annuì. — Mi hanno mostrato… come avvenne.
— Lei non sta facendo nulla che non abbia già fatto prima — disse Timias. — Chi non sta facendo nulla?
— Bella — disse Orem. — Intende rinnovarsi. Uccidendomi e usando il mio sangue.
— Be’, almeno ora ci sei abituato — disse Pulce.
— Ma non ha mai ucciso un marito prima — disse Timias.
Fu solo in quel momento che Orem mise insieme tutto ciò che aveva saputo. Non sta facendo nulla che non abbia fatto prima. Più potente del sangue di un estraneo è il sangue di un marito. Prima era arrivato fino a quel punto, e si era fermato. Ma cosa è più potente del sangue di un marito? Per una donna, il sangue di suo figlio. E un figlio che non ha preso nutrimento se non dal seno della madre. Vendica tuo figlio senza nome. Orem aveva avuto una sorella senza nome, molti anni prima. La figlia di Palicrovol, e Bella l’aveva uccisa per il potere che era in lei. Orem indovinò tutto, e vi credette, e si maledì come uno sciocco per aver pensato fino ad allora che fosse lui la vittima destinata. Giovane! gridò silenziosamente. Giovane, figlio mio, figlio mio.
— Lasciatemi! — gridò ai suoi amici. — Andate lontano da me!
Essi esitarono solo un momento, ma l’espressione sul suo viso disse loro di obbedire. Quando se ne furono andati, Orem balzò fuori di sé e con i suoi terribili denti interiori azzannò tutta la magia che riuscì a trovare, nessuna esclusa, devastò il palazzo dove la Regina Bella era più forte e disfece il suo lavoro dovunque lo trovasse. L’accecò, sciolse i suoi lacci; non gli importava se stava liberando Coniglio o Donnola; trovò la forza e la distrusse, e non poteva, non voleva fermarsi.
E alla fine l’unica forza rimase dentro Bella medesima; tutta l’altra magia del palazzo era stata inghiottita. Ma era lì che aveva voluto arrivare: alla faccia sorridente che teneva suo figlio e voleva ucciderlo. Strato dopo strato, la spogliò; lei cercò di fuggire, ma lui la inseguì. Lei contrattaccò, fece delle finte, cercò di sparire, ma lui le era sempre alle calcagna, disfandola a ogni passo. Non si era mai sentito così grande, e lei era piccola, mentre la inseguiva nel labirinto di scintille e di odori e nei mari di gusto e di udito. Salverò mio figlio.
Poi nulla.
Nulla di nulla. Non riusciva a trovarla. Era tornato nel suo corpo e non poteva scappare. Tutto quello che poteva gustare e toccare era dentro di lui. Aprì gli occhi. Bella era sopra di lui, e lo guardava. Teneva Giovane in braccio. — Papà — disse il bambino, allungando le mani.
— Giovane — sussurrò Orem.
Bella sorrise. Orem capì. Non l’aveva forse avvertito, Vetro-di-Forca? Si era spinto troppo in là. Le aveva fatto capire chi era; era legato. Lei non poteva distruggere il suo dono, ma poteva rivolgerlo contro lui stesso, dove non poteva farle alcun male.
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