Non era triste: rideva alle battute degli altri, e a volte ne diceva anche lui. Non si mostrava nemmeno scontroso, tant’è vero che trascorse diversi pomeriggi sulla piazza del paese, dimostrando ai più nerboruti contadini di Vigor Church che in un incontro di lotta nessuno poteva competere con le braccia e le spalle di un fabbro ferraio. Semplicemente, non si mostrava disponibile a scambiare pettegolezzi o chiacchiere di poco conto, e soprattutto non raccontava mai nulla di sé. E se non era l’altro a tenere in vita la conversazione, Alvin era ben contento di restare in silenzio, concentrandosi sul lavoro o fissando lo sguardo in lontananza, come se neanche si ricordasse di avere compagnia.
Alcuni notarono la scarsa loquacità di Alvin, ma era stato via per tanto tempo, e da un giovane di diciannove anni non ci si attende certo il comportamento di un bambino di nove. Pensarono semplicemente che, nel crescere, si fosse fatto taciturno.
Altri però videro più a fondo. I genitori di Alvin ne discussero più di una volta. «A quel ragazzo deve essere successo qualcosa di brutto» diceva sua madre. Suo padre invece era di tutt’altra idea. «Come a tutti, gli saranno successe cose belle e brutte, mescolate insieme, e dopo sette anni ancora non sa bene come prenderci. Quand’è partito di qui era un ragazzo, e adesso è un uomo. Quando si sarà abituato, sono sicuro che ci stordirà di chiacchiere.»
Anche Eleanor si era accorta che Alvin parlava poco, ma poiché era l’unica a sapere che egli aveva nascosto uno straordinario oggetto vivente nel barile dei fagioli, non pensò neanche per un istante che suo fratello avesse qualcosa che non andava. Così disse a suo marito, Corazza-di-Dio, quando quest’ultimo ebbe occasione di osservare che ad Alvin sembrava che si fosse seccata la lingua: «Pensa a cose profonde. È alle prese con problemi che nessuno di noi saprebbe risolvere. Quando li avrà risolti… vedrai che parlerà fin troppo».
E infine c’era Measure, il fratello di Alvin che era stato catturato dai Rossi insieme a lui; il fratello che aveva conosciuto Ta-Kumsaw e Tenska-Tawa ed era diventato loro amico al pari di Alvin. Com’era naturale, Measure si accorse di quanto poco Alvin parlasse degli anni dell’apprendistato. Alvin avrebbe sicuramente potuto aprirsi con lui, a tempo debito: e questo era naturale, considerando per quanto tempo Alvin aveva riposto la sua fiducia in Measure e tutto quello che avevano passato insieme. Sulle prime, però, Alvin si sentiva in imbarazzo anche di fronte a Measure, visto che nella sua vita adesso c’era Delphi, sua moglie, e qualsiasi idiota si sarebbe accorto che quei due non riuscivano ad allontanarsi più di tre passi uno dall’altra; e Measure con lei era così attento e premuroso, sempre a cercarla, rivolgendosi a lei se era vicina, aspettando ansiosamente il suo ritorno se si trovava altrove. Come poteva sapere Alvin se nel cuore di Measure c’era ancora posto per lui? No, nemmeno a Measure poteva raccontare la sua storia, almeno per il momento.
Un giorno di luglio Alvin si trovava nei campi a costruire una staccionata insieme a Cally, il suo fratello più piccolo, che ormai si era fatto uomo, alto come Alvin anche se non aveva spalle e dorso altrettanto muscolosi. Entrambi erano stati assunti per una settimana da Martin Hill. Alvin preparava le assi, e lo faceva praticamente senza ricorrere al suo dono, anche se a dire il vero avrebbe potuto spaccare quei tronchi semplicemente chiedendo loro di aprirsi. No, infilava il cuneo nel tronco e poi lo affondava a colpi di mazza, e il suo dono lo usava solo per impedire che i tronchi si fendessero secondo un’inclinazione sbagliata che non avrebbe prodotto assi sufficientemente lunghe.
Avevano costruito forse un quarto di miglio di staccionata quando Alvin si accorse improvvisamente di un fatto curioso. Cally non restava mai indietro. Mentre Alvin spaccava i tronchi, Cally piantava i paletti inchiodandovi sopra le assi, e la cosa strana era che non pareva mai avere bisogno di aiuto per conficcare il paletto, per quanto il terreno fosse duro, cedevole, sassoso o fangoso.
Perciò Alvin tenne d’occhio il ragazzo, o meglio, impiegò il proprio dono per osservare il suo modo di lavorare. Sì, Cally aveva qualcosa che per certi versi ricordava il dono di Alvin, ma quello di molto tempo prima, quando ancora non aveva la minima idea di ciò che stava facendo. Cally cercava il punto esatto in cui piantare il paletto, poi ammorbidiva il terreno finché non aveva bisogno che si consolidasse. Alvin immaginò che Cally non lo facesse di proposito. Probabilmente pensava di trovare il punto più adatto a piantare il paletto.
Ecco, pensò Alvin. Ecco quello che so di dover fare: insegnare a qualcun altro l’arte della Creazione. E se al mondo esiste qualcuno cui dovrei insegnarla, questi è proprio Cally, visto che in qualche modo anche lui possiede lo stesso dono. In fin dei conti anche lui è il settimo figlio di un settimo figlio, proprio come me: infatti, quando sono nato io, Vigor era ancora vivo, ma al momento della nascita di Cally, Vigor era morto da un pezzo.
Perciò Alvin cominciò a parlare, mentre entrambi proseguivano il lavoro, spiegando a Cally tutto ciò che sapeva a proposito degli atomi e di come si potesse insegnare loro a essere in un certo modo, e gli atomi obbedissero. Era la prima volta che Alvin cercava di spiegarlo a qualcuno dall’ultima volta che aveva parlato con la signorina Larner — Margaret — e quelle parole avevano per lui un suono delizioso. Questo è il compito per cui sono nato, pensò. Spiegare a mio fratello come funziona il mondo, così che anch’egli possa capirlo e in qualche modo controllarlo.
Potrete credermi se vi dico che Alvin restò sorpreso quando Cally, a un tratto, sollevò un paletto e lo scagliò ai piedi del fratello. E lo scagliò con tanta violenza — o dopo averlo ridotto così male con i suoi poteri nascosti — che il paletto andò in pezzi non appena toccò il terreno. Alvin non riusciva assolutamente a capirne il motivo, ma Cally era fuori di sé dalla rabbia.
«Ho detto qualcosa che non andava?» chiese Alvin.
«Mi chiamo Cal» ribatté. «Nessuno mi chiama più Cally da quando avevo dieci anni.»
«Non lo sapevo» fece Alvin. «Ti chiedo scusa, e d’ora in avanti sarai Cal anche per me.»
«Per te non sono nulla » disse Cal. «Vorrei soltanto che te ne andassi!»
Solo allora Alvin si rese conto che non era stato Cal a chiedergli di aiutarlo in quel lavoro… era stato Martin Hill a dirglielo, e fino a quel momento alla staccionata aveva lavorato solo Cal.
«Non intendevo proprio portarti via il lavoro» si scusò. «Non mi era passato nemmeno lontanamente per la testa che tu non volessi il mio aiuto. Ma so che mi andava di stare con te.»
Tutto quello che Alvin diceva sembrava sortire l’unico risultato di far montare la rabbia di Cal, al punto che adesso questi aveva la faccia tutta rossa e i pugni stretti con forza sufficiente a strangolare un serpente. «Una volta qui avevo il mio posto» disse Cal. «Poi sei tornato tu. Con tutte quelle belle cose imparate sui libri, e tutti quei paroloni. E capace di guarire la gente senza neanche toccarla… Ti basta entrare in casa e fare un incantesimo, e quando te ne vai tutti sono perfettamente guariti, qualunque malattia avessero…»
Alvin non aveva idea che qualcuno potesse essersene accorto. Siccome nessuno gli aveva mai detto niente, aveva immaginato che quelle guarigioni fossero state attribuite a cause naturali. «Non capisco perché questo ti faccia arrabbiare, Cal. Fare in modo che gli altri non soffrano mi sembra un bene.»
Improvvisamente le guance di Cal furono solcate dalle lacrime. «Io invece non riesco a guarirli tutte le volte nemmeno se li tocco» disse. «Nessuno viene più a chiedermi nulla.»
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