Orson Card - Alvin l'apprendista

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In un mondo dominato da magie, incantesimi e misteriose potenze negative, nasce Alvin “Settimo figlio di un settimo figlio” che possiede tutte le energie positive del Creato ed è destinato a combattere per la salvezza degli uomini e della Terra. Il giorno in cui nacque Alvin, Peggy — colei che vede tutti i futuri possibili — ne lesse il destino carico di dolori e pericoli, ma vide anche la missione a cui era predestinato. Una missione che gli avrebbe dato la gloria di essere ricordato come il costruttore di un mondo migliore.

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Orson Scott Card

Alvin l’apprendista

Per tutti i miei buoni maestri, in particolare:

Fran Schroeder, quarta elementare, scuola elementare Millikin, Santa Clara, California, per cui scrissi le mie prime poesie.

Ida Huber, docente d’inglese, seconda superiore, Mesa High School, Arizona, che credeva nel mio futuro più di me.

Charles Whitman, docente di drammaturgia, Brigham Young University, che riusciva a rendere i miei copioni migliori di quello che erano.

Norman Council, docente di letteratura, University of Utah,

per Spenser e Milton, vivi e presenti.

Edward Vasta, docente di letteratura, University of Notre Dame,

per Chaucer e per la nostra amicizia.

E sempre François.

I

IL SORVEGLIANTE

Permettetemi d’incominciare la storia di Alvin l’apprendista dal momento in cui le cose cominciarono a mettersi per il verso sbagliato. Il fatto avvenne molto più a sud, e riguardava un uomo che Alvin non avrebbe mai visto in vita sua. Eppure fu quest’ultimo a mettere in moto la catena di avvenimenti che avrebbe portato Alvin a commettere ciò che la legge definiva «omicidio»… lo stesso giorno in cui terminò il suo apprendistato e poté a buon diritto dirsi un uomo.

Il fatto cui mi riferisco avvenne in una località del territorio degli Appalachi, nel 1811, prima che gli Appalachi firmassero il Trattato sugli Schiavi Fuggiaschi ed entrassero a far parte degli Stati Uniti. Avvenne presso il confine tra gli Appalachi e le Colonie della Corona, dove non c’era Bianco che non aspirasse a possedere uno stuolo di schiavi neri che faticassero al posto suo.

Per quel tipo di Bianco la schiavitù era una specie di alchimia, o così almeno egli se l’immaginava. Escogitava perciò ogni possibile maniera per trasformare ogni goccia di sudore caduta dalla fronte di un Nero in oro sonante, e ogni gemito di disperazione uscito dalla gola di una Nera nel dolce, limpido suono di una moneta d’argento sul banco del cambiavalute. In quei luoghi le anime erano in libera vendita. Eppure non uno di quei Bianchi capiva quale fosse veramente il prezzo che pagava per possedere altri esseri umani.

Ascoltatemi bene, e vi narrerò come appariva il mondo visto dall’interno del cuore di Cavil Planter. [1] Per una migliore comprensione della vicenda, sarà bene osservare che nel mondo di frontiera immaginato dall’autore, a quasi tutti i personaggi viene attribuito un cognome che in inglese — o in americano dialettale — corrisponde alla loro professione o in qualche modo la richiama: abbiamo dunque Planter (piantatore), Lashman (uomo dalla sferza, sorvegliante), Guester (locandiere), Bridger (costruttore di ponti), Physicker (medico), Dowser (rabdomante), Smith (fabbro), Miller (mugnaio), Larner (insegnante). ( N.d.T. ) Ma prima assicuratevi che i bambini siano andati a letto; questa infatti è una parte del mio racconto che i bambini non devono ascoltare, poiché tratta di appetiti che essi ancora non sono in grado di comprendere, e non è il caso che ne vengano a conoscenza proprio da me.

Cavil Planter era un uomo devoto, un uomo di chiesa, un uomo che pagava regolarmente le decime. Tutti i suoi schiavi, lui li battezzava dando loro un nome cristiano non appena avevano imparato l’inglese abbastanza da comprendere la parola del Vangelo. Vietava loro di praticare qualsiasi arte segreta… anzi, non permetteva loro di uccidere neanche una gallina, per timore che trasformassero un atto così innocente in un sacrificio a qualche divinità mostruosa. Cavil Planter insomma serviva il Signore meglio che poteva.

Ma quale fu la ricompensa per tanta rettitudine? Sua moglie, Dolores, cominciò a essere afflitta da atroci dolori, e dita e polsi le si deformarono come quelli di una vecchia. A venticinque anni, quasi ogni notte si addormentava piangendo, e Cavil non sopportava di dividere la camera con lei.

Cercò di aiutarla con impacchi d’acqua fredda, bagni in acqua calda, polveri e pozioni, spendendo più di quanto avrebbe potuto permettersi per una serie di ciarlatani con laurea in medicina dell’Università di Camelot, e conducendo da lei una processione di predicatori con le loro interminabili preghiere e di preti con i loro fantasiosi incantesimi. Tutto ciò non aveva sortito il minimo effetto. Ogni notte doveva restarsene lì disteso ascoltandola piangere finché il pianto non si mutava in una sorta di gemito, e poi gemere finché il respiro non si faceva regolare, con un lieve uggiolio quando espirava, una traccia appena accennata di dolore.

Mesi di quella vita fecero quasi impazzire Cavil di pietà, rabbia e disperazione. Gli pareva di non chiudere mai occhio. Tutto il giorno a lavorare nei campi, e poi restare sveglio tutta la notte implorando il Signore perché gli concedesse un po’ di requie. Se non per lei, almeno per sé.

Fu la stessa Dolores a concedergli sonni tranquilli. «Devi lavorare ogni giorno, Cavil, e se non dormi non puoi farlo. Io non riesco a stare zitta, e tu non riesci a sopportarlo. Ti prego… va’ a dormire in un’altra stanza.»

Cavil si offrì di restare comunque. «Sono tuo marito, il mio posto è qui accanto a te…» così disse, ma lei seppe vedere nel suo cuore.

«Vai» disse. Alzò addirittura la voce: «Vai!»

Così Cavil se ne andò, vergognandosi del sollievo che provava. Quella notte fece tutto un sonno, cinque ore filate sino all’alba, dormì bene per la prima volta da mesi, forse da anni… e al mattino si alzò consumato dal rimorso per non essere rimasto al fianco di sua moglie.

Coll’andar del tempo, tuttavia, Cavil Planter si abituò a dormire da solo. Andava spesso a trovare sua moglie, di giorno e di notte. I pasti li consumavano insieme in camera di lei, Cavil seduto su una sedia davanti al tavolino apparecchiato, Dolores a letto con le mani aperte sul lenzuolo come granchi morti mentre una Nera la imboccava gentilmente.

Anche se dormiva in un’altra stanza, Cavil non era immune dai tormenti. Non avrebbero potuto avere bambini. Né maschi che una volta diventati adulti potessero prendere nelle loro mani la prospera piantagione di Cavil, né femmine da concedere a qualche buon partito con una splendida cerimonia nuziale. La sala da ballo al pianterreno… Quando aveva condotto Dolores nella splendida villa che aveva costruito per lei, le aveva detto: «In questa sala da ballo le nostre figlie incontreranno i loro futuri mariti e per la prima volta le loro mani si sfioreranno così come ci accadde a casa di tuo padre». Adesso Dolores non entrava mai in quella sala. Scendeva al pianterreno solo la domenica per andare in chiesa e quelle rare volte che Cavil comprava qualche nuovo schiavo e questi veniva battezzato.

In simili occasioni tutti la vedevano, e ammiravano sia lei sia Cavil per il loro coraggio e la fede che dimostravano a fronte di tante avversità. Ma l’ammirazione dei vicini era di poca consolazione per Cavil, quando contemplava le rovine dei suoi sogni. Tutto ciò per cui aveva pregato… Era come se il Signore ne avesse fatto l’elenco su un foglio di carta, e poi avesse scritto «no, no, no» a margine di ogni voce.

Quelle delusioni avrebbero forse amareggiato un uomo di minor fede. Ma Cavil era un uomo giusto e timorato di Dio, e ogni volta che gli capitava di pensare che il Signore potesse trattarlo ingiustamente, smetteva di fare qualsiasi cosa stesse facendo, tirava fuori di tasca un piccolo salterio, e recitava le parole del saggio:

In Te, o Signore, ripongo la mia fede;
porgimi il Tuo orecchio,
sii la mia rocca incrollabile.

Nel pronunciare quelle parole si concentrava strenuamente, e dubbi e risentimenti scomparivano come neve al sole. Il Signore era con Cavil Planter, anche nelle sue tribolazioni.

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