Tirò fuori dallo zaino i vestiti e l’indossò. Quindi s’incamminò lungo il margine dei campi finché non s’imbatté in una strada: la seguì, e quando incontrò un ruscello così piccolo da essere superato d’un balzo, Alvin ebbe la prova che si trovava sulla strada giusta. Il ponte coperto costruito sul ruscello era stato infatti costruito da suo padre e dai suoi fratelli, che ne avevano poi realizzati molti altri simili, sulla strada che congiungeva Hatrack a Vigor Church. Quei ponti risalivano a undici anni prima, quando Alvin poppava ancora il latte di sua madre sul carro coperto che procedeva cigolando verso ovest.
Proseguì, nella speranza di non dover camminare a lungo. Aveva corso per centinaia di miglia nella foresta vergine senza danno alcuno per i suoi piedi, ma la strada dell’uomo bianco non aveva parte nella musica verde e non cedeva morbidamente al suo passaggio. Dopo un paio di miglia gli facevano male i piedi, aveva una gran sete e non ci vedeva più dalla fame. Alvin si augurò di non dover fare troppe miglia sulle strade dell’uomo bianco, o avrebbe finito col rimpiangere le sue scarpe.
Un cartello di fianco alla strada annunciò:
CITTÀ DI HATRACK RIVER
HIO
Era un centro abitato di notevoli dimensioni, soprattutto in confronto ai villaggi di frontiera. Certo, niente di paragonabile alla città francese di Detroit, ma là ci si trovava all’estero, mentre Hatrack era, be’, una città americana. Le case e gli altri edifici erano simili alle poche rozze strutture che aveva visto a Vigor Church e in altri villaggi sorti di recente, solo più grandi e rifinite. Quattro vie attraversavano la strada principale, con una banca, un paio di negozi, qualche chiesa, e perfino un tribunale di contea e alcuni edifici con targhe di legno su cui si potevano leggere titoli come «Avvocato», «Medico» e «Alchimista». Se c’erano perfino dei professionisti, voleva dire che si trattava di una città vera , non di una semplice promessa come era stata Vigor Church prima del massacro.
Meno di un anno prima, Alvin aveva avuto una visione della città di Hatrack. Era accaduto quando Lolla-Wossiky, il Profeta, poi conosciuto come Tenska-Tawa, l’aveva rapito nel vortice d’aria da lui evocato sul lago Mizogan. Le pareti del vortice si erano trasformate in cristallo, e in quel cristallo Alvin aveva visto molte cose. Una di queste era la città di Hatrack come appariva all’epoca della nascita di Alvin. Era evidente che in quegli undici anni i suoi abitanti non erano rimasti con le mani in mano. Percorrendo la strada principale, Alvin non riconobbe niente. Quel posto era diventato così grande che nessuno faceva caso a lui, uno straniero cui altrove tutti si sarebbero affrettati a dare il benvenuto.
Si era addentrato per un buon tratto nella parte costruita quando si rese conto che non erano le dimensioni della città a far sì che la gente non si curasse di lui. Erano la polvere incrostata sul viso, i piedi nudi, lo zaino vuoto che portava in spalla. Lo guardavano, lo giudicavano con una sola occhiata, quindi si affrettavano a distogliere lo sguardo, quasi temendo che egli si avvicinasse a chiedere un pezzo di pane o un alloggio per la notte. Era una situazione che Alvin non aveva mai dovuto affrontare, ma che gli apparve in tutta la sua evidenza. Negli ultimi undici anni, la città di Hatrack aveva imparato quale fosse la differenza tra ricchi e poveri.
Era giunto al limite della zona in cui sorgevano gli edifici. Aveva attraversato l’intera cittadina, e non aveva visto né la fucina del fabbro al quale avrebbe dovuto presentarsi, né la locanda in cui era nato e dove in realtà intendeva recarsi. Da quella parte non si scorgevano che un paio di allevamenti di maiali, puzzolenti com’era logico aspettarsi, e poi la strada piegava verso sud, scomparendo alla sua vista.
La fucina doveva esserci ancora, no? Era trascorso solo un anno e mezzo da quando Scambiastorie era partito col contratto di apprendistato che papà aveva steso per Makepeace, il fabbro di Hatrack River. E meno di un anno da quando lo stesso Scambiastorie aveva detto ad Alvin di aver recapitato la lettera, spiegandogli che Makepeace Smith si era mostrato disponibile… Questo era il termine che aveva usato, disponibile. Siccome Scambiastorie parlava con accento britannico, cioè smozzicando la metà delle parole, Alvin sulle prime non aveva capito, e il vecchio aveva dovuto ripeterglielo più volte. A ogni modo, sicuramente il fabbro si trovava ancora lì un anno prima. E la fiaccola della locanda, quella che Alvin aveva visto nella torre di cristallo di Lolla-Wossiky, doveva per forza esserci ancora. Non aveva forse scritto di suo pugno nel libro di Scambiastorie: «È nato un Creatore»? Quando Alvin aveva letto quelle parole, le lettere avevano sfolgorato di luce come se fossero state evocate per magia, simili alla scritta tracciata dalla mano di Dio in quell’episodio della Bibbia che annuncia il crollo di Babilonia. Era stata la parola della profezia a far brillare le lettere in quel modo. Perciò se quel Creatore era lo stesso Alvin, e lui ne era certo, allora la fiaccola doveva saperne di più, grazie al suo dono. Da lei Alvin avrebbe saputo che cos’era veramente un Creatore, e che cosa bisognava fare per diventarlo.
Creatore. Un nome che la gente pronunciava a bassa voce. O in tono di malinconia, dicendo che il mondo aveva chiuso coi Creatori, che non ne sarebbero nati mai più. Certo, c’era chi sosteneva che il vecchio Ben Franklin fosse un Creatore, ma lui l’aveva negato ostinatamente fino all’ultimo dei suoi giorni, proprio come aveva negato di avere a che fare con la magia. Scambiastorie, che conosceva il vecchio Ben come un figlio conosce il padre, affermava che Ben in vita sua aveva creato una cosa sola, cioè il Patto Americano, il pezzo di carta che univa le colonie olandesi e svedesi agl’insediamenti inglesi e tedeschi della Pennsylvania e del Suskwahenny, e soprattutto alla nazione rossa dell’Irrakwa. Si erano così formati gli Stati Uniti d’America, in cui Rossi e Bianchi, olandesi, svedesi e inglesi, ricchi e poveri, mercanti e artigiani, tutti potevano votare, tutti potevano prendere la parola e nessuno poteva dire: «Io sono migliore di te». Alcuni sostenevano che questo bastava a fare di Ben il più grande Creatore che fosse mai esistito: ma no, diceva Scambiastorie, questo lo rendeva un tessitore, un mediatore, ma non un Creatore.
Io sono il Creatore di cui parlava quella fiaccola, pensò adesso Alvin. Mi ha toccato mentre nascevo, e ha sentito che in me c’era la stoffa del Creatore. Devo trovare quella ragazza, che adesso ha sedici anni, e farmi dire da lei che cos’ha visto. Perché sono sicuro che i poteri che ho scoperto dentro di me, le cose che riesco a fare, debbono servire a scopi più alti che tagliare la pietra senza usare le mani, guarire i malati o correre nei boschi come qualsiasi Rosso sa fare (anche se nessun Bianco ne è mai stato capace). Ho un compito che mi attende, e non ho la benché minima idea di come prepararmi a svolgerlo.
Lì in piedi, in mezzo alla strada, con un recinto di maiali a destra e un altro a sinistra, Alvin udì distintamente il ting ting del ferro contro il ferro. Era come se il fabbro l’avesse chiamato per nome. Eccomi qui, diceva il martello, vieni a cercarmi più avanti su questa stessa strada.
Prima di salire verso la fucina, tuttavia, oltrepassò la curva e si trovò di fronte alla locanda in cui era nato, proprio come l’aveva vista nella torre di cristallo. Era stata imbiancata a calce di recente e solo la polvere dell’ultima estate le aveva tolto un po’ di candore: quindi non era proprio identica alla visione… Ma restava comunque la vista più gradita che lo stanco viandante potesse desiderare.
Anzi, doppiamente gradita, giacché là dentro, con un po’ di fortuna, la fiaccola gli avrebbe spiegato quale indirizzo dare alla sua vita.
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