Poi le labbra di Measure gli si accostarono all’orecchio e gli urlarono: «Il Profeta è salvo! Ta-Kumsaw lo ha portato a riva! Quando quella tromba d’aria vi ha risucchiati lassù, ero sicuro che foste morti! Stai bene?»
«Ho visto tutto!» avrebbe voluto esclamare Alvin. Ma era così debole che non riuscì a emettere alcun suono, e allora rinunciò, lasciò che il suo corpo si afflosciasse, crollasse in un sonno di puro sfinimento.
Measure ebbe poche occasioni di stare con Alvin… troppo poche. Dopo l’episodio della tromba d’aria, Measure era convinto che Alvin si sarebbe reso conto del pericolo, e non avrebbe visto l’ora di andarsene. Sembrava invece che Alvin desiderasse soltanto ascoltare il Profeta, rapito dalle storie e dalla perversa saggezza poetica che questi dispensava.
Una volta che Alvin si era finalmente degnato di concedergli il tempo necessario a mettersi a sedere e scambiare due parole, Measure gli chiese che mai ci trovasse di tanto affascinante. «Anche quando parlano inglese, quei Rossi io proprio non li capisco. Parlano di questa terra come se fosse una persona, dicono che bisogna uccidere solo gli esseri viventi che si offrono spontaneamente, che a est del Mizzipy la terra sta morendo… mentre qui anche un cieco può vedere che non sta morendo proprio nulla. E anche se si fosse beccata il vaiolo, la peste bubbonica e diecimila unghie incarnite, non ci sarebbe dottore capace di curarla.»
«Non un dottore, ma Tenska-Tawa sì» disse Alvin.
«E allora che la curi, e intanto noi andiamocene a casa.»
«Un altro giorno, Measure.»
«Mamma e papà saranno distrutti, penseranno che siamo morti!»
«Tenska-Tawa dice che la terra sta provvedendo da sola a trovare una soluzione.»
«Eccoci di nuovo! La terra è solo terra, e non ha niente a che vedere col fatto che per trovarci papà sta facendo setacciare la foresta a palmo a palmo!»
«Vacci senza di me, allora.»
Ma a quel punto Measure non era ancora arrivato. La prospettiva di dover affrontare sua madre e spiegarle come mai fosse tornato a casa senza Alvin non lo allettava affatto. «Ecco, quando l’ho lasciato stava benissimo. Giocava con le trombe d’aria e camminava sull’acqua assieme a un Rosso con un occhio solo. Ancora non aveva voglia di tornare a casa, lo sai come sono i ragazzi.» No, Measure non si sentiva ancora pronto a tornare a casa senza Alvin a rimorchio. E portarlo via contro la sua volontà era fuori questione. Quando gli proponeva di scappare, Alvin neanche lo ascoltava.
L’aspetto peggiore di tutta la faccenda era che mentre tutti trovavano Alvin simpaticissimo e chiacchieravano con lui in inglese e in shawnee, a Measure nessuno si degnava di rivolgere la parola, tranne lo stesso Ta-Kumsaw o il Profeta; ma quest’ultimo parlava in continuazione, che ci fosse qualcuno ad ascoltarlo o no. Così Measure bighellonava tutto il giorno, soffrendo tremendamente la solitudine. Né gli era concesso di allontanarsi troppo. Nessuno gli rivolgeva la parola, ma non appena si allontanava troppo dalle dune andando verso la foresta, qualcuno si premurava immediatamente di scoccare una freccia che si conficcava con un tonfo sordo nella sabbia davanti ai suoi piedi. Se quelli evidentemente nutrivano una cieca fiducia nella propria mira, Measure non ne aveva affatto, e l’idea che la freccia potesse deviare anche solo di un capello non lo divertiva affatto.
Quando ci pensava seriamente, Measure capiva benissimo che fuggire era un’idea assolutamente cretina, perché lo avrebbero riacchiappato in quattro e quattr’otto. Ma quello che non riusciva proprio a capire era perché non volessero lasciarlo andare. Non avevano niente da fargli fare. La sua presenza era del tutto inutile. Allo stesso tempo, giuravano che non avevano la minima intenzione di ammazzarlo, o anche solo di torturarlo un pochino.
Al quarto giorno in mezzo a quelle dune, tuttavia, decise di affrontare la faccenda di petto. Andò da Ta-Kumsaw e chiese esplicitamente di essere lasciato andare. Ta-Kumsaw parve scocciato, ma questo per lui era perfettamente normale. Stavolta, tuttavia, Measure non aveva intenzione di recedere.
«Non lo capisci che tenerci qui per voi è pura e semplice idiozia? Non è che siamo spariti senza lasciar traccia. A questo punto avranno sicuramente ritrovato i cavalli, col tuo nome scritto sopra per dritto e per rovescio.»
E per la prima volta Measure si rese conto che Ta-Kumsaw di quei cavalli non sapeva assolutamente nulla. «Il mio nome non è scritto su alcun cavallo.»
«Sulle selle, capo. Non lo sapevi? Quei Chok-Taw che ci avevano rapiti — ammesso che non fossero anche loro gente tua, cosa di cui non sono ancora del tutto sicuro — sulla sella del mio cavallo hanno inciso il tuo nome, e sulla sella del cavallo di Alvin quello del Profeta. Poi li hanno punzecchiati ben bene per farli correre. Quelle bestie saranno filate a casa come il vento.»
Il volto di Ta-Kumsaw parve offuscarsi, mentre i suoi occhi mandavano lampi. Volendo immaginare un dio del tuono, pensò Measure, ecco a chi potrebbe somigliare. «I Bianchi sicuramente penseranno che sono stato io a rapirli» disse Ta-Kumsaw.
«Non lo sapevi?» chiese Measure. «Ma guarda un po’. Da come vi comportate, mi ero fatto l’idea che voialtri Rossi sapeste tutto. Ho addirittura cercato di parlarne con qualcuno dei tuoi ragazzi, ma quelli mi girano subito le spalle. E nel frattempo nessuno di voi sapeva nulla.»
«Io no» disse Ta-Kumsaw. «Ma qualcun altro sì.» Si allontanò a lunghi passi, per quanto glielo permetteva la cedevole superficie della sabbia; poi all’improvviso si fermò, voltandosi. «Vieni anche tu, ho bisogno di te!»
Così Measure lo seguì fino al wigwam rivestito di corteccia d’albero in cui il Profeta teneva da mattina a sera lezione di catechismo, o quel che era. Ta-Kumsaw non esitò certo a fargli capire quanto fosse infuriato. Senza dire una parola, fece il giro del wigwam allontanando a calci le pietre che lo tenevano ancorato al terreno. Poi lo agguantò a un’estremità e cominciò a sollevarlo. «Per far questo bisogna essere in due» disse.
Measure si accovacciò accanto a lui, afferrò saldamente il bordo del wigwam e contò a voce alta fino a tre. Poi cercò di sollevarlo. Ta-Kumsaw però non si mosse, così che il wigwam si alzò di due o tre palmi e ricadde pesantemente a terra.
Measure grugnì per lo sforzo lanciando a Ta-Kumsaw un’occhiata incendiaria. «Perché non hai tirato?»
«Sei arrivato solo fino a tre» disse Ta-Kumsaw.
«Ma è così che si fa, capo. Uno, due, tre.»
«Voi Bianchi siete così stupidi. Lo sanno tutti che il numero potente è il quattro.»
Ta-Kumsaw contò fino a quattro. Stavolta coordinarono gli sforzi e il wigwam si alzò ribaltandosi dall’altra parte. A questo punto, si capisce, chiunque fosse all’interno aveva capito che cosa stava succedendo, ma nessuno gridò o ebbe particolari reazioni. E quando il wigwam giacque a terra capovolto come una tartaruga rovesciata, videro il Profeta, Alvin e alcuni Rossi seduti a gambe incrociate su una coperta distesa sulla sabbia, mentre il Rosso orbo da un occhio continuava a discorrere come se niente fosse accaduto.
Ta-Kumsaw cominciò a urlare in shawnee, e il Profeta gli rispose, prima mitemente, poi sempre più forte. Ne venne fuori un litigio coi fiocchi, in cui entrambi urlavano in una maniera che secondo l’esperienza di Measure poteva finire solo a botte. Ma non nel caso di quei due Rossi. Dopo aver urlato a squarciagola per una mezz’ora buona, alla fine rimasero lì uno di fronte all’altro, ansimanti, senza scambiarsi una sola parola. Quel silenzio durò solo qualche istante, ma parve più lungo delle urla.
«Ci capisci qualcosa?» chiese Measure.
«So soltanto che il Profeta aveva detto che oggi sarebbe venuto qui Ta-Kumsaw, e che sarebbe stato molto arrabbiato.»
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