Il Profeta si fermò e prese Al tra le braccia finché il ragazzo non poté vedere ciò che il Profeta stava vedendo, guancia contro guancia, fondendo il proprio respiro col suo, il battito del suo cuore forte nel proprio orecchio.
«Guarda» disse il Profeta.
Alvin vide una città scintillare sotto i raggi del sole. Sembrava fatta di torri di ghiaccio, o di vetro trasparente, perché mentre il sole tramontava dietro la città i suoi raggi continuavano a brillare, e la città non gettava la minima ombra sui prati che la circondavano. Nella città si scorgevano gli abitanti, come ombre luminose che giravano qua e là, che salivano e scendevano all’interno delle torri senza scale né ali. Più importante di ciò che Alvin vide, tuttavia, fu ciò che provò nel guardare quello spettacolo. Non un senso di pace, no, in ciò che sentiva non vi era niente di tranquillizzante. Dall’eccitazione il cuore gli batteva veloce come un cavallo lanciato al galoppo. Gli abitanti non erano perfetti… talvolta erano tristi, talvolta arrabbiati. Ma nessuno pativa la fame, e nessuno era ignorante, e nessuno doveva fare qualcosa solo perché qualcun altro aveva deciso così. «Dove si trova questa città?» sussurrò Alvin.
«Non lo so» disse il Profeta. «Ogni volta che vengo qui, la vedo in forma diversa. A volte vedo queste torri alte e sottili, altre volte grandi sfere di cristallo, qualche volta vedo solo la gente vivere sulla superficie di un mare di cristallo infuocato. Penso che questa città in passato sia stata costruita molte volte. Penso che in futuro sarà costruita ancora.»
«Sarai tu a costruirla? È questo lo scopo di Prophetstown?»
Le lacrime rigarono le guance del Profeta, sgorgando dall’occhio buono, colando dalla palpebra che copriva l’orbita vuota. «Da solo, l’uomo rosso non può costruire niente di simile» disse. «Noi siamo parte della terra, e questa città è più della sola terra. La terra è il bene e il male, la vita e la morte insieme, il silenzio verde.»
Alvin ripensò alla musica verde che gli era sembrato di udire, ma non ne fece parola, perché il Profeta stava dicendo cose che egli voleva ascoltare, e Al era abbastanza intelligente da capire che a volte ascoltare è meglio che parlare.
«Ma questa città» proseguì il Profeta «è luce senza buio, pulizia senza sporcizia, salute senza malattia, forza senza debolezza, abbondanza senza fame, vita senza morte.»
«Ma non tutti quelli che ci abitano sono felici» osservò Alvin. «Nessuno di loro vive in eterno.»
«Ah» disse il Profeta. «Non vedi le stesse cose che vedo io.»
«Quello che vedo è che la stanno costruendo.» Al aggrottò la fronte. «Da una parte la costruiscono, dall’altra va in rovina.»
«Ah» disse il Profeta. «La città che vedo io non andrà mai in rovina.»
«Perché questa differenza? Come mai non vediamo la stessa cosa?»
«Non lo so, Ragazzo degli Scarafaggi. Tu sei il primo cui io abbia mai mostrato tutto questo. Adesso torna giù, aspettami in fondo alla torre. Debbo guardare alcune cose prima che il tempo ricominci a scorrere.»
Al solo pensiero di scendere, Al cominciò ad abbassarsi, finché non si ritrovò in fondo, sul pavimento liscio e lucente. Pavimento? Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto essere il soffitto. Era attraversato dalla stessa luce abbagliante che si riversava all’interno della torre attraverso le pareti. Anche lì Alvin scorse delle immagini.
Vide un’immensa nube di polvere ruotare su se stessa sempre più in fretta, ma invece di scagliar polvere all’esterno la nube sembrava risucchiarla al proprio interno, e all’improvviso cominciava a diventare incandescente e poi prendeva fuoco, ed era il Sole, era impossibile sbagliarsi. Alvin sapeva qualcosa dei pianeti, perché Thrower gliene aveva parlato, perciò non restò sorpreso nel vederli come punti di materia incandescente che ben presto si raffreddavano oscurandosi. E dopo un po’, invece della polvere mista a oscurità, c’erano soltanto mondi o spazio più o meno vuoto. Vide la Terra, prima la vide come un puntino minuscolo, poi avvicinandosi si accorse di quanto fosse grande e di come girasse in fretta, una faccia illuminata dalla luce solare, l’altra immersa nell’oscurità. Come sospeso nel cielo, Alvin osservava dall’alto la metà illuminata e tutto ciò che vi accadeva. Prima si scorgevano soltanto nuda roccia e vulcani in eruzione; poi dall’oceano le piante si diffondevano sulla superficie, felci e alberi sempre più alti. Alvin vide i pesci balzare dalla superficie del mare, e poi la vita brulicante sulle spiagge al ritirarsi della marea, e poi gli insetti e le altre minuscole creature che saltavano e rosicchiavano foglie e si rincorrevano divorandosi a vicenda. Gli animali diventavano sempre più grandi, e tutto accadeva talmente in fretta che Alvin non riusciva a seguire ogni cambiamento, solo la Terra che girava e lui che guardava; e vide immense, mostruose creature delle quali non aveva mai sentito parlare, alcune dotate di un lungo collo da serpente, e zanne e mascelle apparentemente capaci di abbattere un albero con un solo morso. E poi scomparvero, e al loro posto c’erano elefanti e antilopi e tigri e cavalli, innumerevoli forme di vita, che somigliavano sempre di più agli animali che Alvin conosceva o di cui aveva sentito parlare. Ma ancora non aveva visto traccia dell’uomo; solo scimmie e altre creature pelose che si prendevano a sassate e camminavano sulle zampe posteriori, ma che non sembravano molto più intelligenti di una ranocchia.
E poi finalmente Alvin vide degli uomini, anche se all’inizio non ne era troppo sicuro perché erano Neri, e in vita sua di Neri ne aveva visto soltanto uno, uno schiavo di proprietà di un mercante proveniente dalle Colonie della Corona che un paio d’anni prima era capitato dalle parti di Vigor Church. Ma benché neri sembravano proprio esseri umani, e coglievano la frutta dagli alberi e le bacche dai cespugli, imboccandosi a vicenda, seguiti da una nidiata di marmocchietti. A un certo punto due di loro si azzuffavano, e quello più grosso ammazzava il più piccolo. Il padre tornava indietro, prendeva a calci l’uccisore e lo cacciava via. Poi prendeva tra le braccia il cadaverino e lo riportava alla mamma, e tutti e due si mettevano a piangere, e deponevano a terra il corpo e lo coprivano di sassi. Poi radunavano il resto della famiglia e se ne andavano, e dopo qualche passo si rimettevano a mangiare e smettevano di piangere, e continuavano tranquilli e beati per la loro strada. Questi sono sicuramente esseri umani, pensò Alvin. È proprio così che si comporta la gente.
La Terra continuava a girare, e quando gli fu di nuovo dinanzi, Alvin la vide popolata da gente di ogni tipo, scuri di pelle nei paesi caldi, chiari nei paesi freddi, e nel mezzo ogni sorta di sfumature. Tranne quando i raggi del Sole toccarono l’America. In America la gente era tutta più o meno uguale, tutti Rossi, che vivessero a nord o a sud, al caldo o al freddo, all’umido o all’asciutto. E in confronto al resto del mondo, quella terra era in pace. Era strano per Alvin vedere che quando la parte più estesa delle terre emerse gli passava davanti, con tutte le diverse razze e nazioni che vi abitavano, a ogni giro tutto cambiava, intere nazioni si trasferivano da un posto all’altro, tutto si spostava senza interruzione, e guerre di continuo, dappertutto. Nella parte più piccola, invece, in America, qualche guerra c’era, sì, ma tutto era più lento, più calmo. La gente viveva secondo un ritmo diverso. La terra aveva un battito cardiaco tutto suo, una vita tutta sua.
Ogni tanto dal vecchio mondo arrivava qualcuno, più che altro pescatori. Gente che aveva sbagliato la rotta, che era stata trascinata via da una tempesta, che fuggiva dai propri nemici. Quella gente sbarcava, e per qualche tempo cercava di vivere in America come aveva vissuto nel vecchio mondo, cercando di costruire in fretta, riprodursi in fretta e ammazzare più gente possibile. Come una malattia. Ma prima o poi si univa ai Rossi e scompariva, o si estingueva. Nessuno riusciva a conservare a lungo le abitudini del vecchio mondo.
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