Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Ma Tanis vide sbiancarsi la mano che stringeva la mensola del caminetto.

«Chi te l’ha detto?» chiese Astinus, all’improvviso. Tanis sussultò. Si era quasi dimenticato della presenza dello storico. «Certamente non la Regina delle Tenebre. A lei non importerebbe nulla di questo.»

«No, no.» Dalamar parve confuso per un attimo. Era ovvio che i suoi pensieri erano stati lontani da lì. Sospirando, levò ancora una volta lo sguardo su di loro. «Me l’ha detto Lord Soth, il Cavaliere della Morte.»

«Lord Soth?» Tanis sentì che stava perdendo la presa sulla realtà.

Freneticamente, il suo cervello cercò un appiglio. Maghi che spiavano altri maghi. Chierici della luce che facevano fronte comune con gli stregoni delle tenebre. La tenebra che si fidava della luce, rivoltandosi contro la tenebra. La luce che diventava tenebra...

«Soth ha promesso fedeltà a Kitiara!» disse Tanis, confuso. «Perché mai dovrebbe tradirla?»

Voltando le spalle al fuoco, Dalamar guardò Tanis negli occhi. Per un intero battito di cuore si stabilì un legame fra i due, un legame forgiato dalla mutua comprensione, da una mutua infelicità, da un mutuo tormento, da una mutua passione. E, tutt’a un tratto, Tanis comprese, e la sua anima si accartocciò su se stessa per l’orrore.

«La vuole morta,» rispose Dalamar.

Capitolo quarto.

Il giovanetto camminava lungo le strade di Solace.

Non era un ragazzino attraente, e lo sapeva, così come sapeva tante cose di sé che spesso ai bambini non veniva dato sapere. Ma, d’altronde, trascorreva moltissimo tempo con se stesso, proprio perché non era attraente e perché sapeva troppo.

Ma oggi non camminava da solo. Suo fratello gemello, Caramon, era con lui. Raistlin si accigliò, stropicciando i piedi in mezzo alla polvere della strada che attraversava il villaggio, osservando come si levasse in nuvole intorno a lui. Poteva anche non essere solo, ma in un certo qual senso era più solo con Caramon che senza di lui. Tutti salutavano a gran voce il suo gemello simpatico e aitante. A lui, invece, nessuno diceva una sola parola. Tutti gridavano perché Caramon si unisse ai loro giochi. Nessuno invitava Raistlin. Le ragazze guardavano Caramon con la coda dell’occhio in quella maniera speciale che hanno le ragazze. Ma quelle stesse ragazze neppure notavano la presenza di Raistlin.

«Ehi, Caramon, vuoi giocare a Re del Castello?» urlò una voce.

«Tu vuoi, Raist?» chiese Caramon, mentre il suo volto s’illuminava per il desiderio. Giovane e atletico com’era, a Caramon piaceva quel gioco rude e faticoso. Ma Raistlin sapeva che, se lui avesse accettato di giocare, si sarebbe ben presto sentito debole e stordito. Sapeva anche che gli altri ragazzi avrebbero litigato per decidere quale squadra, renitente, avrebbe dovuto accoglierlo.

«No. Tu, però, fai pure.»

Caramon fece il muso lungo. Poi, scrollando le spalle, disse: «Oh, non importa, Raist. Preferisco rimanere con te.»

Raistlin sentì che la gola gli si stringeva, insieme allo stomaco. «No, Caramon,» ripetè con voce sommessa, «va tutto bene. Vai pure a giocare.»

«Non hai l’aria di sentirti bene, Raist,» disse Caramon. «Non è un gran gioco, davvero. Su, mostrami quel nuovo trucco di magia che hai imparato, quello con le monetine...»

«Non trattarmi così!» si sentì urlare Raistlin. «Io non ho bisogno di te! Non ti voglio intorno, Vai pure... vai a giocare con quegli sciocchi! Tutti insieme, siete un branco di sciocchi! Non ho bisogno di nessuno di voi!»

Il volto di Caramon si sgretolò. Raistlin ebbe la sensazione di avere appena preso a calci un cane.

Ma questa sensazione servì soltanto a farlo arrabbiare ancora di più. Si allontanò.

«Sicuro, Raist, se è questo che vuoi,» borbottò Caramon. Lanciando un’occhiata dietro le proprie spalle, Raistlin vide il suo gemello che rincorreva gli altri. Con un sospiro, cercando d’ignorare le grida e le risate, Raistlin si sedette in un punto ombreggiato e, tirato fuori uno dei libri d’incantesimi dal suo zaino, cominciò a studiarlo. Ben presto, il fascino della magia lo attirò lontano dalla polvere e dalle risate e dagli occhi feriti del suo gemello. Questo lo condusse in una terra incantata dove era lui a comandare agli elementi, lui a controllare la realtà...

Il libro degli incantesimi gli ruzzolò dalle mani, cadendo nella polvere ai suoi piedi. Raistlin sollevò lo sguardo, sorpreso. Due ragazzi si ergevano sopra di lui. Uno dei due stringeva in mano un bastone. Diede col bastone un colpo al libro, poi, sollevandolo, urtò Raistlin con forza nel petto.

Siete insetti, disse Raistlin in silenzio ai ragazzi. Insetti. Non significate niente, per me. Meno che niente. Ignorando il dolore nel petto, ignorando quegli insetti davanti a lui, Raistlin allungò la mano per raccogliere il suo libro. Il ragazzo gli montò sulle dita.

Spaventato, ma adesso più rabbioso che impaurito, Raistlin si alzò in piedi. Le sue mani erano la sua vita. Con esse manipolava i fragili componenti degli incantesimi, con esse tracciava i delicati simboli arcani della sua Arte nell’aria.

«Lasciatemi in pace,» disse freddamente, e tale fu il modo in cui parlò, e l’espressione dei suoi occhi, che per un istante i due ragazzi furono colti alla sprovvista. Ma adesso si era raccolta una piccola folla. Gli altri ragazzi avevano lasciato il loro gioco ed erano venuti a divertirsi.

Consapevole che altri li stavano guardando, il ragazzo con il bastone si rifiutò di permettere che quel topo di biblioteca frignone, lagnoso, tutto pelle e ossa, avesse la meglio su di lui.

«Cos’hai intenzione di fare?» lo sbeffeggiò il ragazzo. «Vuoi trasformarmi in rana?»

Vi furono risate. Le parole di un incantesimo presero forma nella mente di Raistlin. Era un incantesimo che non avrebbe dovuto ancora imparare, un incantesimo offensivo, un incantesimo che faceva male, un incantesimo da usare quando il pericolo era davvero una minaccia. Il suo Maestro si sarebbe inferocito. Le labbra sottili di Raistlin s’incurvarono in un sorriso. Alla vista di quel sorriso e dell’espressione dei suoi occhi, uno dei ragazzi arretrò.

«Andiamo via,» mormorò, rivolto al compagno.

Ma l’altro ragazzo non cedette. Raistlin poteva vedere, dietro di lui, il suo gemello immobile in mezzo alla folla, un’espressione incollerita sul volto.

Raistlin cominciò a pronunciare le parole...

... e poi s’immobilizzò. No! C’era qualcosa di sbagliato! Se n’era dimenticato! La sua magia non avrebbe funzionato! Non qui! Le parole gli vennero fuori come un borbottio incomprensibile, non avevano alcun senso. Non successe niente! I ragazzi scoppiarono a ridere. Il ragazzo che stringeva il bastone lo sollevò e colpì Raistlin allo stomaco, facendolo cadere al suolo e mozzandogli il fiato.

Raistlin era carponi, boccheggiante. Qualcuno gli sferrò un calcio. Sentì il bastone colpirlo alla schiena. Qualcun altro lo prese a calci. Adesso rotolò sul terreno, soffocando in mezzo alla polvere, cercando disperatamente di coprirsi la testa con le braccia sottili. Fu investito da una gragnuola di colpi e di calci.

«Caramon!» gridò. «Caramon, aiutami!»

Ma in risposta gli giunse una voce severa e profonda: «Non hai bisogno di me... non ricordi?»

Un sasso lo colpì alla testa facendogli un male terribile. E seppe, malgrado non potesse vedere, che era stato Caramon a scagliarlo. Stava perdendo conoscenza. Delle mani lo stavano trascinando lungo la strada polverosa, lo stavano trascinando verso un pozzo tenebroso e d’un gelo abissale.

L’avrebbero buttato là dentro e lui sarebbe caduto interminabilmente, in mezzo all’oscurità e al freddo, e non si sarebbe mai, mai abbattuto sul fondo, poiché non c’era nessun fondo...

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