Si guardò attorno, inspirando a fondo. Qualcosa in questo particolare corridoio gli sembrava familiare. Non era certo del perché; assomigliava a tutti gli altri. Tappeti rosso e oro. Un’intersezione di corridoi più avanti.
Forse non avrebbe dovuto permettere agli uomini delle Marche di Confine di sopravvivere al loro affronto. Forse sarebbe dovuto tornare indietro e provvedere che imparassero a temerlo. Ma no. Non aveva bisogno di loro. Poteva lasciarli lì per i Seanchan. L’esercito delle Marche di Confine sarebbe servito a rallentare i suoi nemici qui al Sud. Forse questo avrebbe impegnato i Seanchan mentre lui affrontava il Tenebroso.
Ma… c’era, forse, un modo per fermare i Seanchan una volta per tutte? Abbassò lo sguardo verso la chiave d’accesso. Una volta aveva provato a usare Callandor per combattere gli invasori stranieri. Non aveva ancora capito perché la spada era così difficile da controllare: solo dopo il suo disastroso attacco, Cadsuane aveva spiegato quello che sapeva al riguardo. Rand doveva essere in un circolo con due donne prima di poter impugnare in tutta sicurezza la spada che non era una spada.
Quello era stato il suo primo grosso fallimento come comandante.
Ma ora aveva uno strumento migliore. Lo strumento più potente mai creato; di sicuro nessun umano poteva trattenere più Unico Potere di quanto aveva fatto lui nel ripulire saidin. Bruciare via dal Disegno Graendal e Collina di Natrin aveva richiesto solo una frazione di quello a cui Rand poteva fare appello.
Se avesse rivolto quello contro i Seanchan, sarebbe potuto andare all’Ultima Battaglia con fiducia, senza più preoccuparsi di ciò che poteva strisciare alle sue spalle. Aveva concesso ai Seanchan la loro occasione. Diverse occasioni. Aveva avvisato Cadsuane, le aveva detto che avrebbe vincolato a se la Figlia delle Nove Lune. In un modo… o nell’altro.
Non ci sarebbe voluto molto.
Lì, disse Lews Therin. Eravamo lì.
Rand si accigliò. Cosa stava blaterando il folle? Si guardò attorno. Il pavimento dell’ampio corridoio era piastrellato con motivi neri e rossi. Alcuni arazzi si increspavano sulle pareti. Con sconcerto, Rand si rese conto che diversi di essi raffiguravano lui, che occupava la Pietra, teneva in mano Callandor, uccideva i Trolloc.
Combattere i Seanchan non è stato il nostro primo fallimento, sussurrò Lews Therin. No, il nostro primo fallimento è accaduto qui. In questo corridoio.
Esausto, a seguito della battaglia con i Trolloc e i Myrddraal. Il fianco gli pulsava. La Pietra riecheggiava ancora dei lamenti dei feriti. Con la sensazione di non poter fare nulla. Nulla.
In piedi sopra il cadavere di una ragazzina. Solo una bambina. Callandor brillava fra le sue dita. Il corpo ebbe un sussulto improvviso.
Moiraine l’aveva fermato. Dare la vita ai morti andava oltre le sue possibilità , aveva detto. Come vorrei che fosse ancora qui, pensò Rand. Spesso era stato frustrato da lei, ma Moiraine — più di chiunque altro — era sembrata in grado di afferrare proprio quello che ci si aspettava che lui facesse. Lo aveva reso più disposto a farlo, perfino quando lui era arrabbiato con lei.
Rand si voltò. Moiraine aveva ragione. Non poteva dare la vita ai morti. Ma era molto bravo a dare la morte a quelli che vivevano. «Radunate le vostre sorelle della landa» disse ad alta voce da sopra la spalla alle sue guardie aiel. «Andiamo in battaglia.»
«Ora?» chiese una di loro. «È notte!»
Ho camminato così a lungo?, pensò Rand sorpreso. «Sì» disse. «L’oscurità non avrà importanza; creerò luce a sufficienza.» Tastò la chiave d’accesso, provando eccitazione e orrore al tempo stesso. Aveva ricacciato i Seanchan nell’oceano una volta. L’avrebbe fatto di nuovo. Da solo.
Sì, li avrebbe cacciati via… perlomeno quelli che avrebbe lasciato in vita.
«Andate!» urlò alle Fanciulle. Quelle lo lasciarono, procedendo ad ampie falcate lungo il corridoio. Cos’era successo al suo autocontrollo? Il ghiaccio si era assottigliato, di recente.
Si diresse di nuovo verso le scale e salì alcune rampe fino alle sue stanze. I Seanchan avrebbero conosciuto la sua furia. Osavano provocare il Drago Rinato? Lui offriva loro pace e quelli gli ridevano in faccia?
Spalancò la porta delle sue stanze, intimando il silenzio agli zelanti Difensori di guardia lì fuori sollevando la mano in un gesto brusco. Non era dell’umore adatto alle loro dance.
Si precipitò dentro e si irritò quando scoprì che le guardie avevano permesso a qualcuno di entrare. Una figura sconosciuta era in piedi e dava le spalle a Rand, guardando fuori dalle porte aperte del balcone. «Cosa…» iniziò Rand.
L’uomo si voltò. Non era uno sconosciuto. Non era affatto uno sconosciuto. Era Tarn. Suo padre.
Rand barcollò all’indietro. Era forse un’apparizione? Qualche trucco perverso del Tenebroso? Ma no, era Tarn. Non ci si poteva sbagliare sugli occhi gentili dell’uomo. Anche se era di una testa più basso di Rand, Tarn era sempre sembrato più solido del mondo attorno a lui. Il suo ampio petto e le gambe salde non potevano essere mossi, non perché fosse forte: durante i suoi viaggi, Rand aveva incontrato molti uomini più forti di lui. La forza era passeggera. Tarn era reale. Certo e stabile. Solo guardarlo gli recava sollievo.
Ma il sollievo era in contrasto con ciò che Rand era diventato. I suoi mondi — la persona che era stato e quella che era diventato — si incontravano come un getto d’acqua su una pietra incandescente. L’una che andava in pezzi, l’altra che diventava vapore.
Tarn rimase immobile, esitante, sulla soglia del balcone, illuminato da due lampade tremolanti su sostegni nella stanza. Rand comprendeva l’esitazione di Tarn. Non erano padre e figlio per motivi di sangue. Il padre naturale di Rand era Janduin, capoclan degli Aiel Taardad. Tarn era solo l’uomo che aveva trovato Rand sulle pendici di Montedrago.
Solo l’uomo che lo aveva allevato. Solo l’uomo che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Solo l’uomo che Rand amava e adorava, come avrebbe sempre fatto, e non aveva importanza se fra loro non c’era alcun legame di sangue.
«Rand.» La voce di Tarn era imbarazzata.
«Per favore» disse Rand sorpreso. «Per favore, siediti.»
Tarn annuì. Chiuse le porte del balcone, poi venne avanti e occupò una delle sedie. Anche Rand si accomodò. Si guardarono, l’uno di fronte all’altro. I muri di pietra erano spogli; Rand li preferiva privi di arazzi o dipinti. Il tappeto era giallo e rosso, e tanto grande da raggiungere tutte e quattro le pareti.
La stanza sembrava troppo perfetta. Un vaso di gigli darà e di boccioli di calima appena tagliati era posato proprio lì dove doveva essere. Sedie al centro, disposte in modo troppo preciso. La stanza non pareva vissuta. Come molti posti in cui era stato, non era casa. Non aveva davvero avuto una casa da quando aveva lasciato i Fiumi Gemelli.
Tarn sedeva su una sedia, Rand su un’altra. Rand si accorse di avere ancora la chiave d’accesso in mano, perciò l’appoggiò sul tappeto con un motivo a forma di sole davanti a se. Tarn lanciò un’occhiata al moncherino di Rand, ma non disse nulla. Serrò le mani assieme, probabilmente desiderando avere qualcosa su cui lavorare. Tarn era sempre più a suo agio nel parlare di cose spiacevoli quando aveva qualcosa da fare con le mani, che si trattasse di controllare le cinghie dei finimenti o di tosare una pecora.
Luce, pensò Rand, provando l’impulso improvviso di avvolgere Tarn in un abbraccio.
Familiarità e ricordi si riversarono nella sua mente. Tarn che consegnava acquavite alla locanda Fonte di Vino per la festa di Bel Tine. Il piacere che Tarn traeva dalla sua pipa. La sua pazienza e la sua gentilezza. La sua insopportabile spada col marchio dell’airone. Lo conosco così bene. Eppure di rado ho pensato a lui negli ultimi tempi.
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