Robert Silverberg - Gilgamesh

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Seguì un lungo silenzio. La testa gli ricadde sul petto e il vecchio parve perdersi in meditazioni: si accigliò, increspò le labbra, sospirò. Sentivo di averlo stancato. Non osavo parlare. Quel momento fu senza fine. Ti prego, pensai, dammi la tua benedizione, insegnami il segreto della tua vita eterna. Ma lo Ziusudra sospirava ancora, ancora aveva la fronte aggrottata.

Poi alzò la testa e mi scrutò con un tale intensità che non riuscii a credere che fosse cieco. Sorrise. Poi con dolcezza, disse: «Dobbiamo parlare ancora di queste cose, Gilgamesh. Ti manderò a chiamare un altro giorno.»

Fece un piccolo gesto: era l’invito ad andarmene. Sentii una cortina invisibile calare tra noi. Sebbene Ziusudra fosse ancora seduto davanti a me, egli non c’era.

Lu-Ninmarka, che in tutto quel frattempo aveva atteso al mio fianco, si avvicinò e mi sfiorò un gomito. Mi alzai, salutai, e me ne uscii. Seguii Lu-Ninmarka nel tenebroso labirinto e risalii nel mondo superiore come chi cammina nel sonno.

36

Lavorai nei campi e andai al Tempio a sentire narrare le storie del diluvio. Mangiai i miei pasti a base di lenticchie e latte di capra, e un giorno si fondeva nell’altro. Mi chiedevo vagamente che cosa succedesse aldilà delle coste dell’isola, ma non pensavo di partire. Ogni tanto vedevo con la mente le strade di Uruk, la faccia di mia moglie e di mio figlio, o di qualcuno della Corte: ma mi sembravano le scene di un sogno. Una volta immaginai di vedere Enkidu davanti a me, e gli sorrisi, ma non gli andai incontro. Un’altra volta Inanna entrò nei miei sogni, raggiante, magnifica, più bella di quanto fosse mai stata. Nel vederla, non provai odio per le sue macchinazioni, solo un lieve rimpianto al pensiero che una tale bellezza un tempo era stata tra le mie braccia e ora non era più mia.

Così passavano i giorni. Uruk e tutto ciò che conteneva si erano allontanati dalla mia mente. Quando i tempi maturarono, mi ritrovai nuovamente in quel tortuoso tunnel, a scendere nel rifugio dello Ziusudra.

Sedeva come la prima volta, eretto sulla sua piccola sedia di vimini come fosse un trono. Sentii il suo potere. Lo circondava come un muro. Alla sua maniera, era un Re; era quasi un Dio. Mi parve che vivesse su un piano posto aldilà della mia comprensione. Desiderai istintivamente inginocchiarmi al suo cospetto, non appena fui alla sua presenza. Penso di non aver mai conosciuto un uomo che detestasse in me un tale timore reverenziale.

Non appena entrai cominciò a parlare, ma non capivo che cosa dicesse. Le parole si alzavano da lui come una colonna di denso fumo si alza da un fuoco di legno fresco. E le sue parole erano impenetrabili come il fumo, cosicché ero incapace di comprendere il significato attraverso i suoni. La sua voce mi girava intorno. Egli parlava la lingua del Paese, almeno così credevo!, e le sue parole erano calme e sicure, come se spiegasse un ragionamento, ma le parole che lo illustravano erano aldilà della mia comprensione.

Mi inginocchiai e lo guardai. Poi, in quel flusso oscuro, cominciai a percepire il bagliore della comprensione, così come si vedono le scintille volare nel fumo. Stava parlando, così sembrava, dell’epoca in cui gli Dei avevano mandato il Diluvio per punire gli uomini ed egli aveva condotto la sua gente sulle montagne ad aspettare che le acque defluissero. Ma non ne ero certo. Ci furono momenti in cui mi parve che parlasse della corretta struttura dei carri, o dei luoghi dove si vanno a cercare i depositi di salgemma nel deserto, e di altri argomenti simili, lontanissimi dalla leggenda del Diluvio. Mi persi nella matassa intricata del suo discorso. Mi sfuggiva il significato delle sue parole.

Poi, ad un tratto, con improvvisa chiarezza disse: «Non esiste la morte, se si eseguono solo i compiti che gli Dei ci hanno insegnato. Mi capisci? Non esiste la morte.»

Si girò verso di me, e parve in attesa.

Dissi: «Il tuo compito era riordinare il Paese quando le acque si fossero ritirate, e per questo gli Dei ti hanno risparmiato la morte. Ma qual è il mio compito, Ziusudra? Tu sai che anche a me verrà risparmiata la morte.»

«Lo so.»

«Ma il Diluvio non tornerà. Che cosa farò? Costruirei una nave come la tua, se ne ce fosse bisogno. Ma non ce n’è bisogno.»

«Pensi che sia esistita quella nave, Gilgamesh? Pensi che ci sia stato il Diluvio?»

Alla luce fievole e tremolante della piccola lampada, cercai di leggere i misteri del suo volto, ma non ci riuscii. La sua mente era troppo agile per me, danzava aldilà della mia comprensione. Stavo perdendo la speranza che mi avrebbe aiutato a trovare quello che cercavo.

«Ho sentito quello che si dice in questo Tempio,» dissi. «Ma a che cosa devo credere? Qui si racconta una storia diversa da quella che si narra nel Paese.»

«Credi a quella che si racconta su quest’isola. Le piogge arrivarono, e a Shuruppak il Re radunò il popolo. Si raccolsero le provviste. Tutti salirono sulle montagne e vi rimasero finché la furia della tempesta non fu passata. Poi tornarono nel Paese e ricostruirono tutto quello che era stato distrutto. Questo solo accadde centinaia di anni fa. Tutto il resto è una leggenda.»

«Compresa la parte,» dissi, «in cui si narra che Enlil venne da te, ti benedì e ti mandò a Dilmun a vivere per sempre?»

Scosse il capo.

«Il Re di Shuruppak fuggì a Dilmun per la disperazione. Vi scappò quando capì che era stata una follia salvare il genere umano, visto che allignavano ancora tutti i mali. Lasciò il Paese. Rinunciò al regno, cercò la virtù e la purezza su quest’isola. Questo solo accadde, Gilgamesh. Tutto il resto è una leggenda.»

«Il racconto dice che gli Dei ti diedero vita eterna. Anche questa era solo una leggenda? Qui c’è la vita eterna, a quanto sembra.»

«La morte non esiste,» disse lo Ziusudra. «Non te l’ho detto?»

«Sì, me lo hai detto. Dobbiamo eseguire i compiti che gli Dei decretano per noi, e allora la morte non esiste. Ma te lo chiedo di nuovo. Qual è il mio compito, Ziusudra? Come devo fare per saperlo? Quale segreto debbo apprendere?»

«Perché pensi che ci sia un segreto?»

«Deve esserci. Tu hai vissuto tanto. Hai visto il Diluvio, che ha avuto luogo dieci millenni fa, o venti, eppure sei ancora qui. Tutt’intorno a te ci sono uomini e donne che sembrano senza età come te. Quanti anni ha Lu-Ninmarka? Quanti anni ha Hasidanum?»

Guardai Ziusudra a lungo e con ansia. Le mani mi tremavano, e dentro di me avvertivo i primi segni dell’aura del Dio: il ronzio, il sibilo, il crepitio, tutte quelle strane sensazioni che mi assalgono quando il bisogno mi opprime.

«Dimmelo, padre, in che modo posso sconfiggere la morte anch’io! Gli Dei riuniti in assemblea ti conferirono la vita eterna. Chi li chiamerà in assemblea per me?»

«Tu sei l’unico che può farlo,» disse lo Ziusudra.

Restai senza fiato.

«Come? Come?»

Rispose in tono sbrigativo.

«Prima di tutto, dimostrami che puoi vincere il sonno, e poi vedremo se puoi vincere la morte. Tu puoi uccidere leoni, Grande Eroe, puoi uccidere il sonno? Ti invito a fare una prova. Resta accanto a me per sei giorni e sette notti senza dormire. E poi forse potrai trovare la vita che cerchi.»

«È questa la via, allora?»

«E la via che conduce alla vita.»

Il ronzio che era dentro la mia anima si placò. Una nuova calma mi dominò. Lo Ziusudra, dopotutto, voleva guidarmi.

«Tenterò,» dissi.

La prova era veramente difficile: sei giorni e sette notti! Era possibile che un mortale riuscisse in quell’impresa? Ma io ero fiducioso. Ero più di un mortale: così credevo fin dall’infanzia, e con buone ragioni. Avevo ucciso leoni e perfino Demoni, avrei potuto uccidere anche il sonno. Non avevo forse dormito non più di un’ora al giorno durante i periodi di guerra? Non avevo forse attraversato le regioni selvagge notte e giorno, come se il sonno non fosse un mio bisogno? Ci sarei riuscito, ne ero certo. Ne avevo la forza, ne avevo la volontà. Mi accosciai accanto allo Ziusudra, fissai gli occhi sulla sua faccia rosea, liscia e serena, e cominciai la prova.

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