Robert Silverberg - Gilgamesh

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Gilgamesh: краткое содержание, описание и аннотация

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Usai tutti i miei giavellotti e non fallii nemmeno un colpo. La forza dirompente dei carri gettò gli Elamiti nella confusione e, sebbene lottassero coraggiosamente, la loro battaglia era senza speranze già dopo i primi minuti.

Un Elamita riuscì a salire sul mio carro e colpì l’asino che era all’estrema sinistra, ferendolo gravemente. Namhani uccise l’uomo con un solo colpo dell’ascia. Poi, scavalcato con un balzo il timone, il bravo auriga tagliò i finimenti con la sua corta spada, liberando l’animale ferito in modo che non rallentasse la nostra avanzata.

Un altro Elamita balzò con una lancia diretta alla schiena di Namhani, ma io lo abbattei con un colpo della mia ascia, e mi voltai appena in tempo per ficcar il manico dell’ascia nel ventre di un soldato che era saltato sul carro dalla parte posteriore. Nel frattempo, i nostri fanti erano all’opera: marciavano in spaventose falangi larghe undici uomini.

Così arrivò la fine per Kish. All’imbrunire il fiume era arrossato dal sangue, e noi festeggiammo felici, mentre gli arpisti cantavano il nostro valore e il vino scorreva abbondante. Il giorno dopo trascorse nella divisione del bottino, che terminammo al crepuscolo, tanta era l’abbondanza della ricchezza.

Durante quella campagna combattei in nove battaglie e in sei scaramucce. Dopo la prima battaglia, il mio carro fu ricompensato con la seconda posizione nello schieramento dell’attacco, dietro il generale ma davanti ai figli del Re. Nessuno dei figli del Re mostrò rabbia nei miei confronti per questo. Fui ferito più volte, ma quelle ferite non erano nulla e, ogni volta che lanciavo un giavellotto, un mio nemico perdeva la vita.

Avevo allora quindici anni, ma nelle mie vene scorre sangue divino, e questo crea molte differenze. Perfino i miei stessi uomini sembravano avere paura di me. Quando vincemmo la terza battaglia, il generale mi chiamò da parte e disse: «Non ho mai visto combattere nessuno come te. Ma c’è una cosa che vorrei tu non facessi quando entri nelle file del nemico.»

«Che cosa?»

«Tu lanci i giavellotti con entrambe le mani. Vorrei che li lanciassi o con una mano o con l’altra, ma non con tutt’e due.»

«Ma io riesco a lanciare bene sia con la sinistra sia con la destra,» dissi. «E credo che i nemici si terrorizzino, quando mi vedono farlo.»

Il generale sorrise impercettibilmente.

«Si, è vero. Ma anche i miei soldati lo vedono. Stanno cominciando a pensare che tu sia più di un essere mortale. Pensano che tu debba essere un Dio, perché nessun uomo normale combatte come te. E questo mi può creare dei problemi, capisci? È un’ottima cosa avere un Eroe tra noi, quando andiamo a combattere, si; ma può essere molto scoraggiante, forse, avere un Dio tra le nostre file. Ogni soldato dell’esercito spera di compiere miracoli di valore ogni giorno, e questa speranza rende più forte il suo braccio sul campo di battaglia. Ma quando sa che non potrà mai essere l’eroe del giorno, perché è in competizione con un Dio, il suo animo si fiacca e il suo cuore diventa pesante. Perciò lancia il giavellotto con la mano destra, figlio di Lugalbanda, oppure con la sinistra, ma con l’una o con l’altra mano, non con tutt’e due. Hai capito?»

«Ho capito,» dissi. Dopodiché cercai di usare solo la mano destra nel lanciare i giavellotti, in segno di rispetto verso gli altri. Nella foga della battaglia, però, non è sempre facile ricordare che si è promesso di usare solo una mano quando si combatte. A volte, quando allungavo la mano a prendere un giavellotto, era con la sinistra, e sarebbe stato stupido passarlo nella destra prima di lanciarlo. Poi, dopo qualche tempo, smisi di preoccuparmi di questa faccenda. Vincemmo tutte le battaglie. Il generale non me ne riparlò.

10

All’inizio pensavo spesso ad Uruk, poi meno spesso, e alla fine non ci pensavo quasi più. Ero diventato un uomo di Kish. In principio, nel sentire a Kish i resoconti delle battaglie di Uruk contro le tribù del deserto o contro qualche città delle montagne orientali, mi sentivo orgoglioso all’idea di quello che «noi» avevamo conquistato, ma poi notai che pensavo all’armata di Uruk non come a noi ma come a loro, e le azioni di quell’armata cessarono di interessarmi.

Eppure sapevo, quando mi davo la pena di pensarci, che la mia vita a Kish non mi avrebbe portato da nessuna parte. Vivevo alla corte di Agga come un Principe, si, e quando era il tempo di combattere una guerra, mi veniva accordata la massima precedenza sul campo, quasi come fossi un figlio del Re. Ma non ero un figlio del Re, ed ero consapevole del fatto che avevo già raggiunto a Kish la posizione più elevata che mi fosse concessa: un Principe, un guerriero, forse un giorno un generale, niente di più. Ad Uruk avrei potuto diventare Re.

Inoltre, ero turbato come sempre dalla grandezza di quell’abisso gelido che mi separava dagli altri uomini. Avevo dei compagni, si, guerrieri con i quali potevo andare a bere, andare con le prostitute. Ma la loro anima mi era preclusa. Che cosa mi separava da loro? Era la mia grande statura, il mio portamento regale, oppure la presenza divina che mi aleggia sempre intorno? Non lo sapevo. Sapevo solo che, a Kish come ad Uruk, avevo su di me la maledizione della solitudine e non avevo nessuna magia con cui liberarmene.

Spesso pensavo anche a mia madre. Mi rendeva triste il fatto che fosse destinata ad invecchiare senza un figlio al suo fianco. A volte le mandavo mie notizie attraverso messaggeri segreti, e ricevevo i suoi messaggi di risposta dai Sacerdoti che fungevano da corrieri tra le città. Non mi chiese mai quando sarei tornato, eppure sapevo che doveva essere il suo interesse preponderante. Poi cominciai a desiderare ardentemente di inginocchiarmi davanti al santuario di mio padre e compiere le cerimonie dovute alla sua memoria. Infatti, sebbene sapessi che il suo spirito vagava nella mia anima, e vedeva tutto quello che vedevo io, cionondimeno non ero esentato dai riti che erano dovuti al suo fantasma. Non potevo compiere quei riti a Kish. Questa mancanza mi ossessionava.

Né riuscivo ad allontanare dalla mia mente il ricordo del la Sacerdotessa Inanna, i suoi occhi scintillanti, il suo corpo snello e flessibile. Ogni anno, quando arrivava l’autunno, ed era il tempo del Matrimonio Sacro ad Uruk, immaginavo di stare tra la folla sulla Piattaforma Bianca a guardare il Re e la Sacerdotessa, il Dio e la Dea, mostrarsi al popolo, e un amaro dolore nasceva in me nel pensare che quella notte lei avrebbe diviso il letto con Dumuzi.

Mi dissi che mi aveva tradito, o almeno che non mi era stata fedele; eppure Inanna splendeva nella mia mente e io provavo un desiderio intenso per lei. La Sacerdotessa, come la Dea che essa serve e incarna, era una figura minacciosa ma irresistibile nella mia mente. La sua aura era di morte e di disastro, ma anche di passione e di gioia della carne, e qualcosa di più di questo: l’unione di due spiriti che costituisce il vero Matrimonio Sacro. Lei era la mia metà. Ma io ero un guerriero di Kish, e lei era una Dea di Uruk. E io non potevo andare da lei, perché lei mi aveva fatto condannare a morte nella mia città natale, per un suo piano o per sconsideratezza.

Durante il quarto anno del mio esilio, un Sacerdote con la testa rasata, che era appena arrivato da Uruk, venne a trovarmi nel Palazzo di Agga e mi salutò con il Segno della Dea. Prese dalla tunica un sacchetto di pelle nera e me lo poggiò sul palmo, dicendo: «È un segno per Gilgamesh il Re, da parte della Dea.»

Avevo sentito quello strano nome, «Gilgamesh,» solo una volta, molto tempo prima. E il Sacerdote, nell’usarlo, mi aveva fatto capire chi mi avesse inviato il sacchetto.

Quando il Sacerdote se ne fu andato, aprii il sacchetto nel mio appartamento. Dentro c’era un piccolo oggetto brillante, un sigillo a forma di cilindro, come quelli che usiamo sulle lettere e su altri documenti importanti. Era intagliato in un pezzo di ossidiana bianca, così chiara che la luce l’attraversava con la stessa facilità con cui avrebbe attraversato l’aria. Il disegno che vi era inciso era complicato e bello, palesemente l’opera di un grande maestro. Feci venire da me uno scriba e gli chiesi di portarmi la sua migliore argilla rossa, poi, con attenzione, rotolai il cilindro sull’argilla per vedere che impronta lasciasse.

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