Robert Silverberg - Gilgamesh

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Gilgamesh: краткое содержание, описание и аннотация

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Agga sapeva che ero scappato da Dumuzi. Sembrava sapere molto di quello che avveniva ad Uruk, molto più di me, in realtà. Ma non fu una sorpresa per me che un Re potente come Agga mantenesse una rete di spie nella città che era la maggiore rivale della sua. Quello che mi sorprese fu la fonte da cui provenivano le sue informazioni. Ma questo lo scoprii molto tempo dopo.

«Che cosa hai fatto,» chiese Agga, «per far rivoltare il Re contro di te in questo modo?»

Me l’ero chiesto anch’io. Era strano che Dumuzi avesse improvvisamente deciso che ero suo nemico, dopo avermi prestato così poca attenzione nei sei o sette anni trascorsi dalla morte di mio padre.

Durante quel periodo di tempo, certamente non avevo sfidato in nessun modo il suo potere. Sebbene fossi forte e alto più di quanto lo esigesse la mia età, ero ben lontano dall’essere pronto a ricoprire un qualsiasi ruolo nel governo della città. Senza dubbio, Dumuzi e tutti gli altri se n’erano resi conto. Talvolta, nell’ingenuità dell’infanzia, mi ero vantato che un giorno sarei diventato Re, ma era solo una spacconata infantile, pronunciata quando il regno di mio padre Lugalbanda era ancora nitido nel mio ricordo. Qualsiasi sogno di potere regale avessi nutrito sin da allora — e non potevo negare di aver fatto simili sogni — lo avevo tenuto solo per me.

Ma, seduto alla tavola di Agga a riflettere su questo fatto, ricordai che ad Uruk c’era qualcun altro modo più dedito di me al passatempo di predire il mio destino, e che sembrava non avere dubbi che io sarei diventato Re. Lei non mi aveva forse sussurrato dei piaceri che avremmo diviso quando fosse arrivato quel giorno? Non era forse arrivata fino al punto di! coniare il nome con cui avrei regnato?

E lei era vicina all’orecchio di Dumuzi.

«Che cosa penserebbe Dumuzi,» chiesi ad Agga, «se sospettasse che nella mia anima fosse entrato il divino Lugalbanda, e che il suo spirito ora dimorasse dentro di me?»

«Ah, è così?,» chiese Agga in fretta, con gli occhi che gli brillavano.

Presi il boccale di birra, ne bevvi un sorso e non diedi nessuna risposta.

Dopo qualche momento, mi disse, guardandomi con attenzione: «Se fosse così, o se Dumuzi si limitasse a pensare che così sia, beh, allora credo che gli sembreresti molto pericoloso. Egli sa che non vale cinque peli della barba di tuo padre. Teme il solo nome di Lugalbanda. Ma Lugalbanda da morto non costituisce nessuna minaccia al trono di Dumuzi.»

«Si, certamente è così.»

«Ah,» disse Agga, con un sorriso, «ma se ad Uruk si dovesse diffondere la voce che lo spirito del grande e valoroso Lugalbanda ora dimora nel corpo robusto del nobile figlio di Lugalbanda — e se questo figlio si stesse avvicinando ad un’età adatta a cominciare ad avere un ruolo nel governo della città — beh, si, tu saresti apparso un grande pericolo a Dumuzi, un gravissimo pericolo, in realtà…»

«Grave abbastanza da farmi uccidere?»

Agga girò le mani, con i palmi rivolti verso l’esterno.

«Che cosa dice il proverbio? «Il vigliacco vede leoni laddove l’uomo coraggioso vede solo gatti!» Io non avrei avuto paura del fantasma di Lugalbanda, se fossi stato Dumuzi. Ma io non sono Dumuzi, ed egli vede le cose in una maniera diversa.» Mi diede altra birra, mandando via gli schiavi con un cenno e versandola egli stesso dalla brocca. Poi disse: «Se è vero che Lugalbanda è il Dio che ti ha scelto — e io non sarei stupito che fosse così — allora sappi che è stato poco prudente farlo sapere a Dumuzi.»

«Lo capisco. Ma qualsiasi cosa sia venuto a sapere Dumuzi, non l’ha saputa da me.»

«Egli l’ha appresa da qualcuno, però, e questo qualcuno deve averla appresa da te. Non è così?»

Annuii.

«Allora tu hai parlato imprudentemente ad un amico che non è un amico, e sei stato tradito, eh? Non è così?»

A denti stretti dissi: «Le avevo chiesto di non dire nemmeno una parola a nessuno! Ma non me l’ha promesso. Si è adirata, in effetti, quando le ho chiesto di promettermelo.»

«Ah, Ah! Lei?»

Arrossii.

«Sto dicendo più di quanto dovrei rivelare.»

Mise una mano sulla mia.

«Figliolo, figliolo, non mi stai dicendo niente che io non sappia già! Ma qui sei al sicuro da Dumuzi. Sei sotto la mia protezione, e nessun tradiménto ti può raggiungere nella mia città. Tieni, prendi altra birra. Com’è buona e dolce! L’orzo da cui viene fatta è riservato al Re. Tieni, bevi, figliolo, bevi, bevi! Bevi!»

Ed io bevvi, e bevvi ancora. Ma la mia mente restava lucida, perché bruciava di una rabbia che aveva dissolto ogni ubriachezza provocata dalla birra di Agga. Non c’era dubbio, lei si era precipitata da Dumuzi a dirgli tutto, non appena io me n’ero andato, senza pensare nemmeno per un attimo che poteva mettermi in pericolo. Oppure era questo che voleva? Tradirmi? Perché? Non ne capivo la ragione. Forse era stata solo sconsideratezza dire a Dumuzi l’unica cosa che io le avevo pregato di non dire a nessuno. Oppure aveva forse messo in atto un piano troppo sottile perché io lo comprendessi. Non capivo niente, capivo solo che era stata certamente lei a provocare il mio esilio con il rivelare il mio segreto all’uomo che ne veniva maggiormente minacciato. In quel momento la rabbia divenne così forte che, se lei fosse stata vicina, l’avrei picchiata, per quanto fosse la Sacerdotessa.

Dopo qualche istante l’ira mi abbandonò. Restammo insieme fino a notte fonda, Agga ed io, e lui mi narrò delle guerre con Lugalbanda, e del giorno in cui si erano sfidati ad un combattimento singolo fuori le mura di Kish. Le asce colpirono gli scudi un’ora dopo l’altra, finché non arrivò il buio, ma nessuno fu capace di ferire l’altro. Aveva sempre stimato molto mio padre, mi disse, anche quando erano nemici mortali.

Poi ordinò di aprire un’altra botte di birra — ero stupito nel vedere quanto bevesse, e non c’era da meravigliarsi che ci fosse tanta carne sulle sue ossa — e, a mano a mano che diventava più confuso a causa della birra, anche le sue storie lo diventavano, e riuscivo a malapena a seguirle. Cominciò a raccontare le campagne di suo padre Enmebaraggesi e quelle di mio nonno Enmerkar, storie di guerre combattute quando lui era solo un bambino. Poi passò ad un miscuglio di leggende dell’antica Kish, che riguardavano Re che erano solo nomi per me, e per giunta strani nomi: Zukakip, Buanum, Mashda, Arurim, eccetera.

Agga era sempre più ubriaco e assonnato, io ero sempre più sveglio. Ma sentivo che Agga era meno confuso di quanto sembrasse e che mi osservava con attenzione costante e acuta. Non dimenticai che quel vecchio che mi stava davanti era il Re di Kish, il Grande Signore di una grande città, sopravvissuto a centinaia di battaglie sanguinose, l’uomo più perspicace, forse, di tutto il paese.

Mi assegnò uno splendido appartamento all’interno del Palazzo, e mi mandò quante concubine desiderassi. Dopo qualche tempo mi diede anche una moglie. Si chiamava Amasukkul. Era figlia di Agga e di una delle sue ancelle, aveva tredici anni ed era vergine. Quando me l’offrì, io non seppi che cosa dire, perché non ero certo che fosse giusto sposare una donna di una città straniera, e pensavo che avrei dovuto almeno avere il consenso di mia madre Ninsun.

Ma Agga era convinto che un Principe di Uruk in visita a Kish non doveva stare senza una moglie. Non era difficile capire che l’avrei offeso profondamente se avessi respinto la sua ospitalità mostrando disprezzo per sua figlia. Un matrimonio a Kish, giudicai, non mi avrebbe legato nella mia città natale, se avessi ritenuto desiderabile liberarmene. Fu così che sposai la prima delle mie mogli.

Ama-sukkul era una ragazza allegra, dai seni rotondi e dal sorriso dolce, ma aveva poco da dire: penso che per tutto il tempo del nostro matrimonio non abbia mai parlato nemmeno una volta, se non interrogata. Avrei voluto che fossimo più vicini. Ma gli Dei non mi hanno concesso la fortuna di aprire il mio cuore ad una donna nel matrimonio. Ho avuto delle mogli, si: un Re le deve avere. Ma sono state tutte delle estranee per me.

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