Robert Silverberg - Gilgamesh
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- Название:Gilgamesh
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1988
- Город:Roma
- ISBN:8-8347-0051-1
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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So perché è stato così. Vorrei dirlo qui, sebbene lo capirete da soli quando avrete davanti il racconto della mia vita. È stato così perché sono stato legato per tutta la vita, in un modo strano e incomprensibile, a quella donna dall’anima misteriosa, la Sacerdotessa Inanna, che non ha mai potuto diventare mia moglie nel senso comune del termine, ma che non ha lasciato posto nel mio cuore per le donne comuni.
L’ho amata e l’ho detestata, spesso nello stesso tempo. Sono stato impegnato in una tale lotta spirituale con quella donna, che non ho assaporato la comune sorte dell’amore domestico con nessun’altra donna. È la verità. Chi è che pensa che la vita dei Re e degli Eroi sia facile?
Agga mi legò a sé in un altro modo: mi fece giurare fedeltà a Kish, una promessa che avrebbe avuto valore per tutta la mia vita, anche se fossi diventato Re di Uruk.
«Ho giurato di proteggerti,» spiegò, «e tu in cambio devi giurarmi la tua lealtà.»
Mi chiesi se non stessi vergognosamente vendendogli Uruk, rendendomi suo vassallo. Ma quando mi inginocchiai in privato e chiesi a Lugalbanda di guidarmi, nella mia anima non sentii nulla che mi dicesse che avevo commesso un errore nel giurare fedeltà. Riflettei che in un certo senso tutti nel paese dovevano fedeltà a Kish, poiché era a Kish che il regno era disceso dopo il Diluvio, e gli Dei non l’avevano mai ritirato formalmente! in tutti gli anni successivi. Di conseguenza, con quel giuramento, io mi limitavo a confermare una fedeltà che esisteva già astrattamente. Mi passò per la mente anche che non avrebbe fatto nessuna differenza il fatto che avessi riconosciuto Agga mio Signore, una volta che fossi diventato Re di Uruk, finché non mi veniva richiesto di pagare un tributo o di sottomettersi ai suoi ordini, e nel giuramento non c’era niente a proposito di entrambe le cose. Perciò giurai. Sulla rete di Enlil giurai la mia fedeltà al Re di Kish.
Non c’era nessuna possibilità di tornare ad Uruk nel giro di qualche giorno o di qualche settimana, come avevo pensato all’inizio. Non molto tempo dopo il mio arrivo a Kish, arrivarono degli emissari di Dumuzi e con molto tatto ma altrettanta fermezza chiesero ad Agga di affidarmi a loro.
«Si sente molto la mancanza del figlio di Lugalbanda ad Uruk,» dissero, mentendo pietosamente. «Il nostro Re implora i consiglieri, e desidera ardentemente il suo braccio forte per il campo di battaglia.»
«Ah,» replicò Agga, roteando gli occhi e con l’espressione atteggiata ad un grande dolore, «ma il figlio di Lugalbanda è diventato anche figlio mio, e non mi separerei da lui per tutto l’oro del Paese. Dite a Dumuzi che morirei di dolore, se il figlio di Lugalbanda dovesse lasciare Kish così presto.»
E in privato Agga mi disse che le sue spie avevano riferito che Dumuzi era fuori di sé dalla paura che io stessi organizzando un’armata a Kish per detronizzarlo. Ad Uruk ero stato proclamato nemico della città, disse, e sarei stato sicuramente ucciso, se fossi caduto tra le mani di Dumuzi. Perciò restai a Kish. Ma riuscii a far sapere a mia madre che stavo bene e che aspettavo il momento giusto per il mio ritorno a casa.
Trovai che Kish non era una città molto diversa da Uruk, sotto parecchi aspetti. Ad Uruk mangiavamo carne e pane, e bevevamo birra e vino di datteri, e lo stesso era a Kish. Ad Uruk e a Kish gli abiti erano di lana o di lino, a seconda della stagione, e lo stile dell’abbigliamento era lo stesso. Le strade di Uruk erano strette e tortuose, fatta eccezione per i grandi viali, e così erano anche le strade di Kish. Le case di Uruk avevano i tetti piatti, un piano o talvolta due, in basso erano di mattoni cotti e in alto erano di mattoni di fango coperti di intonaco bianco, e così erano anche a Kish.
Le lingue parlate ad Uruk erano le stesse parlate a Kish, a Kish si scriveva su tavolette d’argilla come si faceva a Uruk, e i caratteri erano gli stessi. L’unica differenza, e per me era grande, stava nella religione. I Templi principali di Uruk, naturalmente, sono quelli dedicati a Inanna e al Padre del Cielo An. A Kish nessuno negherebbe la grandezza di An o il potere di Inanna, ma i Templi di Kish sono dedicati al Padre Enlil, il Signore delle Tempeste, e alla Grande Madre Ninhursag.
Per me era strano essere costantemente alla presenza di quegli Dei, e non di quelli di Uruk. Sento più paura che amore per la Dea Inanna, ma c’è anche l’amore, ed è difficile vivere in un posto dove Inanna non è presente. Sebbene tutto sia uguale esteriormente, internamente è diverso: a Kish anche l’aria ha un colore diverso, e anche il suo odore è diverso, perché non si respira l’alito di Inanna.
Fu a Kish che finalmente completai la mia istruzione nelle arti marziali. Ero in ritardo: ero diventato un uomo ormai, e più di un uomo per la statura e per la forza, ma non avevo mai assaggiato una battaglia. Agga mi diede questo primo assaggio, e anche di più: in realtà, un banchetto abbondante, un bel pezzo di carne e una brocca di birra.
Le sue guerre si svolgevano ad oriente, nel regno accidentato e montagnoso di Elam. Quella nazione abbonda di molti prodotti che mancano completamente nel paese: legname, i minerali grezzi di rame e di stagno, pietre come l’alabastro, l’ossidiana, la cornalina e l’onice. E noi abbiamo prodotti che per loro sono rari e preziosi: la produzione dei nostri campi fertilissimi, il nostro orzo e il grano, le albicocche e i limoni, e anche la lana e il lino. Quindi ci sarebbero buone ragioni di commercio tra Elam e le città del Paese, ma gli Dei non hanno voluto così: per ogni anno di pace con gli Elamiti, abbiamo tre anni di guerra. Scendono nelle pianure a fare razzie, e noi dobbiamo mandare le nostre armate a ricacciarli indietro, poi per prendere loro i beni di cui abbiamo bisogno.
Il padre di Agga, il Re Enmebaraggesi, aveva riportato grandi vittorie ad Elam e per qualche tempo l’aveva sottomessa a Kish. Ma, durante il regno di Agga, gli Elamiti erano ridiventati ribelli. Allora era in atto una guerra lungo la frontiera. Perciò, durante il mio secondo anno di esilio, partii con l’armata di Kish per l’ampia pianura spazzata dai venti, aldilà della quale sorge Susa, la Capitale di Elam.
Da molti anni sognavo battaglie, fin dall’infanzia, quando mio padre, nelle brevi pause tra una guerra e l’altra, mi narrava le storie di carri e giavellotti. Avevo giocato alle battaglie sui campi di Uruk, stendevo piani di attacco e guidavo i miei compagni di gioco in cariche violente contro nemici invisibili. Ma c’è una canzone di battaglia che solo le orecchie di un guerriero sentono, un suono alto, penetrante, che taglia l’aria come una lama. Finché non si è udita quella canzone, non si è un guerriero, non si è un uomo. Non sapevo nulla di quella canzone finché non la sentii, per la prima volta, accanto alle acque di un fiume chiamato il Karkhah, nella terra di Elam.
Tutta la notte, alla luce intensa della luna, ci preparammo all’attacco: oliammo tutte le armi in legno e pelle, e lucidammo fino a farle risplendere tutte le armi in bronzo. Il cielo era così nitido che vedevamo gli Dei camminare: grandi figure con le corna, blu contro lo sfondo nero, che incedevano da una nuvola all’altra. Il viso gigantesco di An, calmo, attento, sembrava riempire il cielo. Il Grande Enlil si stagliava sul trono, mandando tempeste su terre lontane. Il potere di quegli Dei si sentiva caldo e intenso nell’aria, come una febbre.
Accendemmo fuochi per gli Dei e sacrificammo giovenchi, e gli Dei scesero su di noi, cosicché avvertivamo la pressione del loro peso divino sul nostro cuore. All’alba, senza aver dormito nemmeno un’ora, indossai il mio elmetto scintillante, e mi infilai una corta tunica di pelle di pecora con un rinforzo di cuoio nascosto all’altezza del ventre. Mi arrampicai poi sul mio carro, come se quello fosse il mio ventesimo anno di guerra.
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