Robert Silverberg - Gilgamesh
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- Название:Gilgamesh
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1988
- Город:Roma
- ISBN:8-8347-0051-1
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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Danzai una folle danza, ansando e sbattendo i piedi contro il terreno. Lugalbanda mi mise tra le mani un tamburo: io lo percossi e cantai un cantico in sua lode. Una forza attraversò il mio corpo, e un grande calore. Senza paura, corsi verso il tunnel blu, seguendo una sfera roteante e ondeggiante di una vivace luce purpurea che brillava come un piccolo sole davanti a me.
Corsi tutta la notte senza sosta, attraversai i Quartieri della città, il Leone, la Canna, l’Alveare, il Kullab, l’Eanna. Oltrepassai il Palazzo Reale, salii i gradini della Piattaforma Bianca e li discesi, entrai ed uscii da vari Templi, superai le birrerie, le taverne, i bordelli, il mercato delle spezie, le banchine sul fiume, le stalle, i macelli, le concerie, la Strada degli Scribi e la Strada degli Indovini.
Il mio sguardo arrivò al centro della terra e vide Demoni e fantasmi che si affaticavano in caverne fiammeggianti. Mi appollaiai sul braccio destro di Lugalbanda e volai nei cieli. Scorsi i Grandi Dei lontani nelle loro sfere di cristallo, e tributai loro il mio saluto. Scesi di nuovo sulla Terra e viaggiai di paese in paese. Soggiornai a Dilmun la Benedetta, a Meluhna e Makan, e sulle Montagne del Cedro, guardate dai Diavoli. Vissi in molti altri luoghi lontani, pieni di meraviglie e miracoli di cui non avrei creduto l’esistenza, se avessi ragionato con la mia mente normale.
Che cosa accadde dopo, non lo ricordo. Ma poi arrivò la mattina e mi ritrovai disteso sulla schiena, davanti al Santuario di Lugalbanda.
Mi sentivo rigido e dolorante come se dei mostri avessero piegato i miei arti nel verso sbagliato. Non avevo idea di come fossi arrivato in quel posto, né di che cosa fosse accaduto la sera prima. Ma era chiaro che avevo passato la notte a dormire all’aperto, e sapevo di aver compiuto strane azioni. Le mascelle mi facevano molto male e la lingua era gonfia e dolorante: forse me l’ero morsa un paio di volte, e avevo saliva secca sul mento e sulla tunica.
Due giovani soldati dall’espressione perplessa erano chini su di me.
«E vivo, credo,» disse uno dei due.
«Si? Ha gli occhi vitrei. Ehi, sei vivo?»
«Parlagli con più gentilezza. È il figlio di Lugalbanda.»
«Non fa nessuna differenza, se è morto.»
«Ma è vivo. Guarda, respira. Gli occhi si muovono.»
«Si.» E a me: «Sei veramente il figlio di Lugalbanda? Ah, credo proprio che tu lo sia. Porti l’anello da Principe. Su, allora. Lascia che ti aiutiamo.»
Gli allontanai la mano.
«Ce la faccio da solo,» dissi con una voce che sembrava rame arrugginito. «State indietro! State indietro!»
In qualche modo riuscii a stare in piedi, non senza goffi ondeggiamenti e barcollii. I soldati erano pronti ad afferrarmi, con un’espressione lievemente ansiosa, forse a causa della mia statura. Ma riuscii a restare eretto. Uno di loro ammiccò e disse: «Abbiamo celebrato il Matrimonio un po’ troppo, non è vero, Vostra Signoria? Beh, non è un peccato. Auguri, Signoria, auguri per l’anno nuovo!»
Il Matrimonio. Il Matrimonio! I ricordi mi tornarono, accompagnati dal dolore. Inanna, Dumuzi. Dumuzi, Inanna.
Mi girai, indietreggiai: ora ricordavo tutto. E tornò in me quel terribile senso di solitudine: sapevo di essere solo sotto le stelle incuranti. Fui assalito da un tormento dell’anima che fece sembrare sciocchezze i dolori e le ammaccature del mio corpo indebolito.
I due soldati aggrottarono la fronte.
«Stai bene? Possiamo fare qualcosa per te?»
«Lasciarmi solo,» dissi cupamente.
«Come desideri, Signoria.»
Si strinsero nelle spalle e cominciarono a camminare lungo la strada.
«La dolcezza di Inanna sia con te, Signoria!», uno di loro si girò ad urlarmi. E l’altro rise e gli disse: «Sarà una vera dolcezza quest’anno. L’hai vista, la nuova?»
«Ah, si! Che gioia deve aver provato il Re!»
«Basta!», mormorai.
E i due soldati, da lontano: «La Dea è morta! Lunga vita alla Dea!»
Poi scomparvero, e io restai solo con il mio dolore, il mio dispiacere, i miei lividi e il mio stupore. Ma non ero completamente solo. Sentivo ancora la presenza divina, calda e luminosa, che mormorava nel mio orecchio destro: Non temere nulla. Non temere nulla. Perché Lugalbanda era con me, dentro di me, e lo sarebbe stato per sempre.
7
All’inizio del Nuovo Anno, quando la festa del Matrimonio Sacro terminò e i funerali della precedente Alta Sacerdotessa si furono svolti, fui chiamato alla presenza di Colei-Che-Ora-È-Inanna. Fu un invito che non potevo respingere. Ma ero riluttante a vederla, ora che l’ombra di Dumuzi era caduta tra noi come una spada.
Tre piccoli schiavi del Tempio, guardandomi con gli occhi spalancati come se io fossi un Demone gigante, mi condussero alla camera della Dea, nel settore più sacro del quartiere di Eanna. Io e lei non ci saremmo più incontrati in oscure cappelle lungo i tunnel demoniaci che erano al di sotto del Tempio.
La stanza in cui mi ricevette era una sala maestosa di mattoni imbiancati, con le pareti forate, attraverso le quali entravano le lance fiammeggianti del sole. Lungo la linea, dove le pareti incontravano il soffitto, si svolgeva una strana serie di decorazioni, globi rigonfi e scarlatti che somigliavano molto a mammelle. Forse era quella l’intenzione. La Dea, tra i suoi attributi, ha anche quello di essere la Grande Meretrice, la Regina del Deserto.
Aspettai a lungo in quella stanza, camminando avanti e indietro, prima che lei arrivasse. Entrò maestosamente nella stanza, accompagnata da due paggi che portavano il grande fascio di canne, sbucciate all’estremità, alte più di un uomo, che va dovunque vada Inanna. Con un gesto veloce licenziò i paggi e noi restammo soli.
Si erse in tutta la sua altezza davanti a me. Aveva un aspetto splendido, trionfante e terrificante. Vidi che aveva ancora una lieve aria fanciullesca, ma non troppo. Da quando le avevo parlato l’ultima volta, si era trasformata in qualcosa che andava aldilà della mia portata e della mia comprensione.
La immaginai nuda tra le braccia del Re che è il Dio, durante la notte del Matrimonio Sacro, che era stata la prima notte della sua nuova funzione, e il sapore della bile mi arrivò alle labbra.
Indossava una semplice tunica bianca che la copriva dalla testa ai piedi, lasciandole scoperta una sola spalla. I capelli scuri avevano la fila al centro ed erano intrecciati in una folta treccia che le girava intorno alla testa. Le guance erano colorate lievemente di giallo ocra e le palpebre erano scurite dal kajahl, ma per il resto non portava altri cosmetici. L’unico segno tangibile della sua nuova funzione era una delicata catena d’oro, intrecciata nella forma di un serpente, che le circondava la fronte. Ma c’erano altri segni più sottili. L’aura di potere l’avvolgeva. La luce del cielo poteva accendersi sotto la sua pelle.
La guardai, ma i miei occhi non riuscirono ad incontrare i suoi. Riuscivo solo a pensare al suo corpo che si muoveva sotto quello di Dumuzi, alle sue labbra sulle labbra di lui, alla mano del Re tra le sue gambe, e bruciavo di mortificazione e di vergogna.
Poi ricordai a me stesso che la donna che mi stava davanti non era solo qualcuno che un tempo avevo desiderato. Era l’incarnazione del più alto potere del mondo, era la Dea stessa. L’abisso tra noi era immenso. Accanto a lei, tutti i miei piccoli desideri non erano nulla.
«Ebbene?» disse, dopo un lungo intervallo.
Feci il Segno della Dea.
«Regina del Cielo e della Terra,» borbottai. «Madre Divina. Primogenita della Luna.»
«Guardami.»
Alzai gli occhi. Non arrivarono fino a lei.
«Guardami! Negli occhi, negli occhi! Perché questo terrore? Sono tanto cambiata?»
«Si,» sussurrai. «Molto cambiata.»
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