Robert Silverberg - Gilgamesh
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- Название:Gilgamesh
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1988
- Город:Roma
- ISBN:8-8347-0051-1
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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Quella notte, però, sembrava che stesse per avere luogo qualcosa di insolito. Il Re e la Sacerdotessa di solito escono sul porticato del Tempio nell’istante in cui la luna crescente appare al di sopra dell’Edificio Sacro. Quella notte però il momento arrivò e se ne andò, ma la porta del Tempio restò chiusa. Non so quanto tempo aspettammo. Mi sembrarono ore. Ci guardavamo l’un l’altro con sguardi interrogativi, ma nessuno osava parlare.
Poi la grande porta di bronzo finalmente si spalancò e la coppia santa apparve. Alla loro vista, il silenzio divenne ancora più intenso: sembrava che una voragine di quiete avesse ingoiato tutti i suoni del mondo. Ma solo per un attimo. Un momento dopo si sentirono bassi mormorii e sibili, quando le persone in prima fila cominciarono a sussurrare e borbottare per la sorpresa.
Dal punto in cui mi trovavo, molto indietro, sulle prime non riuscii a capire che cosa fosse accaduto. C’era Dumuzi con la corona scintillante e la sfarzosa tunica regale, di un blu profondo: e c’era Inanna al suo fianco. Poi mi accorsi che la donna che indossava gli ornamenti sacri di avorio, oro, cornalina e lapislazzuli non era Inanna, almeno non era l’Inanna che si era presentata al rito in tutti gli anni passati, fin dalla mia nascita. Quella donna era bassa e tozza, mentre questa sembrava avere un corpo più sottile, più snello, quasi fragile. Ed era alta, le sue spalle raggiungevano quelle di Dumuzi. E, quando un momento dopo capii chi fosse, seppi che ero in procinto di perdere ciò che era mio, e che non potevo impedirlo.
Dovevo vederle il volto. Mi feci largo a spallate tra le persone, come fossero pezzi di legno.
Ad una distanza di venti passi, la guardai negli occhi, e vidi l’oscura malizia che vi scintillava. Si, naturalmente, era lei, salita d’improvviso dalla sua camera sotterranea fino al più alto dei poteri di Uruk. Non era più un’ancella della Dea, ma d’improvviso, sorprendentemente, si era trasformata nel la Dea stessa. Non riuscivo a muovermi. Le gambe mi divennero pesanti e si inchiodarono al suolo. La gola mi si chiuse, come per un mucchietto di sabbia che non riuscissi né ad ingoiare né ad espellere.
Mi guardò ma non parve vedermi, sebbene fossi più alto di tutte le persone che mi attorniavano. La cerimonia l’aveva assorbita interamente. La guardai porgere a Dumuzi la sacra bottiglia bianca di miele, e ricevere da lui il vaso sacro di orzo. Li udii scambiarsi le parole del rito: «Mia Gemma Santa, mia meravigliosa Inanna,» disse lui, e lei a lui: «O mio sposo Dumuzi, sei il mio vero amore.»
Con voce cupa chiesi ad un Signore che mi era accanto: «Che cosa è successo? Dov’è Inanna?»
«È lì, Inanna.»
«Ma quella ragazza non è l’Alta Sacerdotessa!»
«Da questa notte in avanti lo è,» replicò. E un altro, più lontano da me, disse: «Si dice che la vecchia Sacerdotessa fosse malata, e che sia peggiorata durante il giorno. Pare che sia morta al tramonto. Ma ne avevano un’altra pronta ad essere consacrata. L’hanno lavata e vestita in tutta fretta, e sposerà Dumuzi stanotte. Per questo motivo hanno ritardato.»
Sentii echeggiare nelle caverne della mia mente le parole, sposerà Dumuzi stanotte, e pensai che sarei piombato a terra.
Il Re bevve un sorso dalla bottiglia di miele, e lo restituì a lei che ne bevve un sorso. Congiunsero le mani e svuotarono a terra il vaso di orzo. Poi versarono il miele dorato sui semi. I musici del Tempio suonarono i loro strumenti e cantarono l’inno della presentazione del Dio e della Dea.
La cerimonia era quasi terminata, ormai. Dopo qualche momento sarebbero entrati nel Tempio. Nella divina camera nuziale le ancelle l’avrebbero spogliata degli anelli, dei lacci, dei pettorali e dello scintillante triangolo d’oro che le copriva il ventre. Poi lui l’avrebbe carezzata, le avrebbe detto le parole del Matrimonio Sacro, e poi… poi…
Non resistei a guardarli un minuto di più.
Mi girai e mi allontanai a precipizio dalla piattaforma come un toro impazzito, buttando a terra chiunque non si togliesse immediatamente dalla mia strada. Dietro di me risuonava la musica di cimbali e flauti. Non potevo sopportarne il suono. Sono in camera da letto adesso, pensai, lui la tocca, le sfiora i posti segreti, la sua bocca è contro quella di lei, la coprirà con il suo corpo, entrerà in lei…
Corsi ciecamente nel buio, senza sapere e senza curarmi di dove andassi. Un dolore che avevo conosciuto fin troppo spesso mi aveva assalito di nuovo. Mi sentivo solo, emarginato, uno straniero nella mia città. Non avevo né padre, né fratello, né moglie, e nessuno che potessi chiamare veramente amico. La mia solitudine era come un muro di fiamme che mi circondava. Desideravo ardentemente trovare qualcuno — chiunque — ma non c’era nessuno. Potevo solo correre, e continuai a correre finché mi sentii scoppiare il torace.
Alla fine mi trovai a barcollare lungo le strade deserte del Quartiere del Leone, dove ci sono le caserme. Non era un caso che i miei piedi mi avessero portato lì: quando ci colpisce quel genere di cecità, veniamo guidati dagli Dei. A quell’epoca, al centro del Quartiere del Leone, sorgeva un Santuario consacrato a Lugalbanda, eretto da Dumuzi all’inizio del regno. Non era nulla di grandioso, solo una statua di mio padre, un po’ più grande del vero, illuminata dal basso da tre piccole lampade ad olio che erano accese giorno e notte. Era un tributo alquanto piccolo ad un grande Re che era diventato un Dio. Mi gettai davanti alla statua e mi afferrai ai mattoni della sua base. E ad un tratto sentii una sensazione strana e familiare entrare nella mia mente.
Era la stessa sensazione strana che mi aveva assalito il giorno del funerale di mio padre, e che mi aveva sfiorato in modo più lieve due o tre volte negli anni successivi: un senso di pressione sulla fronte, la sensazione di grandi ali invisibili che battevano contro la mia anima.
Ma quella volta fu molto più potente di quanto fosse mai stata. Non era possibile opporsi alla sua forza. Sentii formicolare la pelle, e il torpore mi avvolse tutto. Udii un lieve ronzio, simile a quello che si sente quando un lontano sciame di locuste si alza nel cielo pomeridiano e attraversa la pianura. Poi il ronzio si fece più forte, come se le locuste si fossero avvicinate e le dense nubi nere dei loro sciami oscurassero il sole. Sentii l’odore pungente di candele accese, sebbene non ci fosse nessuna candela nelle vicinanze. Dalle strade e dagli edifici vicini si alzò una fredda fiamma blu che mi travolse in piatte ondate, avvolgendomi senza bruciarmi.
Mi alzai o, meglio, fluttuai in piedi. Davanti a me vidi un tunnel, perfettamente rotondo, con pareti levigate e scintillanti da cui si irradiava un luminoso bagliore blu. Mi avvicinai. Cedetti al suo influsso. Sentii il pulsare lento, costante, di un tamburo, che diventava sempre più forte ad ogni battuta. Ero privo di volontà, completamente schiavo di quel potere divino. Ero spaventato come non lo sono mai stato in tutta la mia vita. Perché mi sentivo perduto, mi sentivo attirato verso un luogo di distruzione dove tutte le identità sono immerse nel fuoco blu che consuma tutto.
Una voce calma mi disse all’orecchio destro: «Non temere nulla. Lugalbanda è con te. Ci sarà un patto tra noi che varrà per tutti gli anni a venire.»
Con queste parole la paura, il dolore e il dispiacere, mi lasciarono, e io conobbi una gioia illimitata, un rapimento infinito, una sensazione di estasi profonda.
Non c’era nessun pericolo. Un Dio era con me, e io ero al sicuro. Non opposi più resistenza. Ad ogni respiro, inspiravo la divinità. Mi arresi. Lasciai che il Dio fluisse attraverso le pareti della mia anima, entrasse dentro di me, e mi possedesse pienamente.
Non temere nulla. Lugalbanda è con te.
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