Bob Shaw - Sfida al cielo

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Un pianeta su cui si è sviluppata una società avventurosa ma arretrata, spinta da una grande sete di conoscenza ma dotata di una tecnologia elementare e proprio per questo ancora più eroica. Un ambiente duro e ostile da cui si può evadere solo fuggendo verso l’ignoto, nello spazio: sono le premesse da cui parte Bob Shaw per costruire un romanzo di avventure i cui protagonisti sono astronauti che volano su navi di legno ed esploratori dell’ignoto disposti a muoversi fra i mondi con poco più di una caravella. In condizioni simili non c’è da stupirsi che i pericoli del viaggio si moltiplichino per mille e le incognite dell’arrivo siano ancora più tremende. Ma cosa ha da perdere chi non ha nulla da perdere? Non è esagerato dire che in questa saga di un futuro “diverso” Shaw sia riuscito a darci tutti gli elementi di un originale racconto epico.

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— Perché… — Dalacott gli fece uno strano sorriso. — Diciamo che ha fatto incontrare tua madre e me.

— Capisco — disse Toller, parlando meccanicamente ma comprendendo davvero, mentre le parole del generale penetravano nella sua mente, e come un’onda violenta e pulita che cambia l’aspetto di una spiaggia inserivano frammenti dei suoi ricordi in nuovi disegni. Erano disegni poco familiari ma neppure totalmente estranei, perché erano rimasti sepolti nei suoi vecchi schemi, e avevano semplicemente bisogno di un bello scossone per venire a galla. Cadde un lungo silenzio, rotto solo dal leggero rumore scoppiettante di una cimice oleosa che urtò il tubo a fiamma della lampada e scivolò giù nel serbatoio. Toller fissò solennemente suo padre, cercando di sentire qualche emozione, ma dentro di lui c’era solo torpore.

— Non so cosa dire — ammise infine. — Questo è arrivato così… tardi.

— Più tardi di quanto tu pensi.

— Di nuovo, l’espressione di Dalacott si fece enigmatica quando portò la coppa alle labbra. — Avevo molte ragioni, alcune solo egoistiche, per non farti sapere, Toller. Hai qualcosa da rimproverarmi?

— Nulla, signore.

Ne sono felice. — Dalacott si alzò. — Non ci incontreremo di nuovo, Toller. Vuoi abbracciarmi… per una volta… come un uomo abbraccia suo padre?

— Padre. — Toller si alzò e strinse le braccia intorno all’anziana figura dritta come una spada. In quel breve momento di contatto avvertì nel respiro di suo padre un vago sentore di spezie. Diede uno sguardo alla coppa che aspettava sul tavolo, fece un rapido collegamento mentale, e quando si separarono per tornare a sedere c’era un leggero pizzicore nei suoi occhi.

Dalacott sembrava calmo, del tutto composto. — Ora, figliolo, cosa farai dopo? Kolcorron e i suoi nuovi alleati, i ptertha, hanno ottenuto la loro gloriosa vittoria. Il tuo mestiere di soldato è quasi finito, quindi cos’hai pensato per il tuo futuro?

— Credo che non ci si aspettasse che avessi un futuro — disse Toller. — C’è stato un tempo in cui Leddravohr mi avrebbe ammazzato di persona, ma è successo qualcosa, qualcosa che non capisco. Mi ha fatto entrare nell’esercito e penso che contasse sui Chamtethani per fare il lavoro al suo posto.

— Non ha difficoltà per occupare i suoi pensieri e scaricare le sue energie, sai — continuò il generale. — C’è un intero continente da saccheggiare, semplicemente come preliminare alla costruzione della flotta di migrazione. Forse Leddravohr ti ha dimenticato Io non ho dimenticato lui.

— Vuoi ucciderlo?

— Ci ho pensato. — Toller rivide le impronte di sangue sul pavimento a mosaico, ma la visione era diventata sfocata, sepolta sotto centinaia di immagini di carneficina. — Ora non so più se la spada sia la risposta a tutto.

— Sono sollevato nel sentirtelo dire. Anche se Leddravohr non è certo entusiasta del piano di migrazione, lui è probabilmente l’uomo migliore per condurlo al successo. E possibile che il futuro della nostra razza posi sulle sue spalle.

— Sono consapevole di questa possibilità, padre.

— E senti anche di poter risolvere perfettamente i tuoi problemi senza i miei consigli. — Una smorfia cupa torse le labbra del generale. — Penso che mi sarebbe piaciuto averti vicino. Ora, cosa rispondi alla mia domanda originaria? Non hai proprio nessuna idea per il tuo futuro?

— Mi piacerebbe pilotare una nave per Sopramondo — disse Toller. — Ma credo che sia un’ambizione irrealizzabile.

— Perché? La tua famiglia deve avere una certa influenza.

— Mio fratello è il capo consulente nel progetto delle astronavi, ma è inviso al principe Leddravohr quasi quanto me.

— E una cosa che desideri davvero, pilotare un’astronave? Vuoi veramente salire per migliaia di miglia nel cielo? Con solo un pallone, qualche corda e pochi pezzi di legno a sorreggerti?

Toller rimase sorpreso dalla domanda. — Perché no?

— Davvero, una nuova età porta avanti nuovi uomini — disse Dalacott piano, come parlando a se stesso. Poi le sue maniere divennero brusche. — Devi andare adesso. Devo scrivere delle lettere. Ho una qualche influenza su Leddravohr, e molta su Carranald, il capo dei Servizi Aerei dell’Esercito. Se hai le attitudini necessarie piloterai un’astronave.

— Di nuovo, padre, non so cosa dire. — Toller si alzò, ma era riluttante ad andarsene. Erano successe tante cose nello spazio di appena qualche minuto, e la sua incapacità di rispondere lo riempiva di una colpevole sensazione di fallimento. Come poteva incontrare e dire addio a suo padre quasi nello stesso respiro?

— Non voglio che tu dica niente, figliolo. Accetta soltanto il fatto che io ho amato tua madre e… — Dalacott si interruppe, con un’espressione sorpresa, e scrutò l’interno della tenda come se sospettasse la presenza di un intruso.

Toller era preoccupato. — Stai male?

— Non è niente. La notte è troppo lunga e buia in questa parte del pianeta.

- Forse se ti sdraiassi — disse Toller, muovendo qualche passo verso di lui.

Il generale Risdel Dalacott lo fermò con uno sguardo. — Lasciatemi ora, tenente.

Toller salutò formalmente e uscì dalla tenda. Mentre stava chiudendo la falda dell’entrata vide che suo padre aveva preso in mano la penna e aveva già cominciato a scrivere. Toller lasciò cadere il lembo sul triangolo debolmente illuminato, su quell’immagine che filtrava attraverso le pieghe trasparenti di probabilità, di vite non vissute, di storie che non si sarebbero dovute raccontare mai. Cominciò a piangere subito allontanandosi nel buio pieno di stelle. Pozzi profondi di emozione erano rimasti chiusi troppo a lungo, e le sue lacrime erano tanto più abbondanti perché liberate così tardi.

13

La notte, come sempre, era il tempo dei ptertha.

Marnn Ibler era nell’esercito da quando aveva quindici anni e, come molti soldati in servizio da lungo tempo, aveva sviluppato un superbo sistema d’allarme personale che lo avvertiva infallibilmente quando uno dei globi era vicino. Non era realmente consapevole di quella vigilanza, e anche quand’era esausto o ubriaco sapeva come per istinto quando i ptertha stavano passando nelle sue vicinanze.

Fu così che si trovò a essere il primo uomo a cogliere i segnali di un ulteriore cambiamento nella natura e nei modi dell’antico nemico della sua gente.

Era di guardia notturna al grande campo base permanente della Terza Armata, a Trompha, nel Middac meridionale. Il servizio non richiedeva molta attenzione. Solo poche unità di sostegno erano state lasciate indietro quando Kolcorron aveva invaso Chamteth; la base era sicura, vicina al cuore dell’imperò, e nessuno se non un pazzo si sarebbe avventurato fuori di notte in aperta campagna.

Ibbler era con due giovani sentinelle che si stavano lamentando amaramente e diffusamente del cibo e della paga. Lui era segretamente d’accordo con loro sul primo punto, mai nella sua esperienza le razioni dell’esercito erano state così magre e indigeste, ma come tutti i vecchi soldati controbatteva ai loro reclami con i racconti delle privazioni delle campagne precedenti. Era vicino allo schermo interno, oltre il quale si estendeva la zona cuscinetto di trenta iarde, e poi lo schermo esterno. Attraverso i reticolati erano visibili le fertili pianure del Middac che si allungavano a occidente fino all’orizzonte, illuminato da un gibboso Sopramondo.

Non avrebbe dovuto esserci alcun movimento nel buio, tranne il balenio quasi continuo delle stelle cadenti, quindi, quando i sensi finemente sintonizzati di Ibbler colsero un impercettibile spostamento di ombra su ombra seppe subito che si trattava di un ptertha. Non ne parlò nemmeno ai suoi compagni, loro erano al sicuro sotto la doppia barriera, e continuò la conversazione come prima, ma una parte della sua coscienza era adesso impegnata altrove.

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